ANDARE OLTRE LA PAURA

In questo spazio è possibile raccontare e pubblicare le storie di coloro che sono riusciti, anche attraverso il dolore e la sofferenza, a sconfiggere la malattia.
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Franco953
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ANDARE OLTRE LA PAURA

Messaggio da Franco953 »

Queste storie che pubblico periodicamente , devono farci riflettere sulla concreta possibilità di battere il tumore e uscire dal tunnel della sofferenza per affrontare il futuro con Speranza e Fiducia. Oggi il termine Tumore, grazie alla ricerca e all'impegno personale dei medici e dei malati per battere la "bestia", non è più sinonimo di "morte sicura". Bisogna crederci, pensare positivo e combattere con forza e decisione per uscirne vincitori.
Franco

Storia estratta dal sito ALCASE Italia (per vincere il cancro del polmone)

Testimonianza della Sig.ra Maiorano Felicia

ANDARE OLTRE LA PAURA

A distanza di anni, ancora non saprei dire come abbia potuto farcela. Il ricordo di quell’esperienza puntualmente rinnova lo stupore, e lo stupore ha sempre un qualche rapporto col mistero. Sono molto religiosa, lo sono sempre stata. Ma non voglio mettere le conclusioni in testa alla testimonianza.

Sono di origine pugliese: per la precisione nativa di Altamura, in provincia di Bari. Classe 1927. Negli anni ’60, la stagione del boom economico, ormai donna partecipai anch’io alla massiccia migrazione verso le grandi città del nord. Arrivai a Torino. Cercavo lavoro, trovai l’amore. E il lavoro non sarebbe mai mancato.

Nel ’68 mio marito ed io ci trasferimmo a Murazzano, in provincia di Cuneo. Fu il secondo cambiamento radicale della mia vita. La casa – ci vivo ancora adesso – era in campagna, con la terra e le bestie: mucche e pecore. Io le portavo al pascolo, e andavo appresso a mio marito quando c’era il fieno. Si occupava lui della mungitura, poi io facevo le robiole, quelle miste, con il latte bovino e caprino. Fare formaggi mi piaceva: la predisposizione per quest’attività fu una scoperta, perché giù in meridione non l’avevo mai fatta. A quel tempo non c’erano i corsi di formazione e tutte quelle cose che si organizzano oggi per i giovani: imparare era una necessità. Non imparai, invece, a parlare il dialetto piemontese. Capirlo sì, e avendo in casa un marito e un cognato piemontesi, anche abbastanza in fretta. Lo preferisco al dialetto pugliese. Ho sempre parlato italiano, con un chiaro accento meridionale.

Era una vita dura, dall’alba al tramonto senza mai fermarsi. Il solo momento di tempo libero era la domenica mattina, quando si andava a messa. Come premesso, sono molto credente, devota di Padre Pio e di tutti i santi. Il segreto per riuscire a vivere così? Nessun segreto: dopo un po’ ci si abitua e non ci si fa più caso, basta solo la buona volontà. Oggi niente più bestie e quindi niente più formaggi: è rimasta la terra. La fa andare il mio unico figlio, ma per lui si tratta di un secondo lavoro.

Una mattina di febbraio del 1990, mentre camminavo nel cortile di casa, diedi un colpo di tosse. Mi accorsi subito che in bocca avevo del sangue misto a saliva. Un fatto strano, non mi era mai successo. Nella mia mente si fece subito largo la convinzione che si trattasse di qualcosa di brutto. Il medico di famiglia non capì, e nemmeno all’ospedale di Ceva, dove mi ero recata per fare i raggi, furono in grado di darmi una spiegazione. Fu la farmacista di Murazzano, cui sarò sempre grata, a rendersi conto che il mio problema era piuttosto grave, e non c’era tempo da perdere. Mi indirizzò a un bravo pneumologo di Monesiglio, il dottor Ugo Valesano: questi a sua volta mi preparò le carte colle quali in seguito mi presentai all’ospedale Carle di Cuneo. Lì feci tutti gli accertamenti del caso: lastre, tomografia, radiografia. Venne fuori una piccola macchia al polmone destro. Significava una cosa sola: cancro del polmone. Non ho mai fumato, per cui credo che il mio sia stato un caso di fumo passivo: in casa avevano il vizio sia mio marito che mio cognato. Né penso di essere stata esposta a sostanze cancerogene, perché, vivendo in campagna, respiravo un’aria certo più pulita e salubre che in città. Ma sono ipotesi personali.

A mio marito, buonanima, in un primo momento dissero che mi restavano tre mesi di vita. Lui, poverino, si mise a piangere: il cancro (quello della gola) gli aveva già portato via la madre quando lei aveva 60 anni, quindi ancora abbastanza giovane. Mio marito mi rivelò questa sentenza di condanna a distanza di tempo. Subito aveva cercato di non dare a vedere la sua grande preoccupazione. Ma io la percepivo, così come quella di mio figlio e di mio cognato (che il cancro, mortale, se lo sarebbe poi beccato al pancreas). Ero consapevole della condizione in cui mi trovavo. Mi presero in cura i medici del Carle. Che professionalità, che gentilezza! Diedi loro delega totale. Sapevo di potermi fidare di loro. Disperarsi o lamentarsi non serve a nulla, anzi. Del cancro me n’ero fatta una ragione. Mi ero adattata, e non era la prima volta, nella vita. Però attenzione: adattarsi non vuol dire assolutamente rassegnarsi, rinunciare. Bisogna essere forti. Oltre che dagli affetti, la mia forza proveniva dalla fede. In quel periodo pregai tantissimo, più del solito. Non tanto per me, quanto per il fatto che a casa avevo tre uomini da accudire. Non voglio passare per femminista: il ’68 non l’ho fatto per motivi generazionali e perché proprio quell’anno andammo a vivere lontano dal teatro della contestazione. Però è vero che in una donna il senso della famiglia e quindi della responsabilità è molto sviluppato, è qualcosa di viscerale.

La data dell’operazione fu fissata il 4 aprile 1990, appena due mesi dopo quel colpo di tosse nel cortile di casa. Trascorsi la vigilia serenamente. Un po’ di timore ce l’avevo, certo, ma è umano. Mi asportarono la parte di polmone intaccata dal tumore. Per fortuna non c’erano metastasi. L’intervento riuscì bene, ma al risveglio sentii un male atroce. Restare a letto era una vera sofferenza. Evitavo di girarmi dalla parte della ferita, i medici stessi me lo avevano sconsigliato. Ad assistermi c’era mia sorella: la sua presenza fu molto preziosa. La degenza post intervento durò un mese: 8-10 giorni circa (di preciso non ricordo) al Santa Croce, venti giorni al Carle. Quando finalmente tornai a casa, stavo già un po’ meglio, ma dovetti passare ancora del tempo a letto, e ci volle un anno perché mi rimettessi in quadro. Nel frattempo i tre uomini di casa si arrangiavano, in cucina come nelle pulizie.

In quel lungo periodo di convalescenza notai un maggiore interesse nei miei confronti: persone amiche o anche semplici conoscenti mi venivano a trovare, mi chiedevano come stavo. Il piacere di quelle attenzioni fu un’efficace medicina aggiuntiva.

Una volta ristabilitami, abbandonai i lavori della campagna, troppo faticosi. Ripresi a governare la casa, facendo le cose più lentamente di prima. Ma, in fondo, non c’era (e non c’è) nessuna fretta.

Da un’esperienza simile si esce con una maggiore consapevolezza di ciò che alla vita conferisce valore. Non dimenticherò mai la grande umanità dei medici e degli infermieri di Cuneo: sono andati oltre il loro dovere. A una persona a rischio consiglio di fare prevenzione, sottoponendosi a controlli periodici. Nel mio caso sono stata molto fortunata, perché prima della malattia non ne avevo mai fatti. Bisogna convincersi che di cancro del polmone si può guarire. A patto di scoprirlo per tempo. E di affrontarlo a viso aperto, andando oltre la paura.
“Non è tanto quello che facciamo, ma quanto amore mettiamo nel farlo. Non è tanto quello che diamo, ma quanto amore mettiamo nel dare.”
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