Refolo

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Franco953
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Iscritto il: ven 31 lug 2015, 9:57

Refolo

Messaggio da Franco953 »

Questi sono racconti di vita vera che ci possono emozionare. Possono toccarci nel profondo ma ciò che è più importante è che possono insegnarci qualcosa su come gli altri cercano di affrontare la vita , i dolori, i dispiaceri .
Franco

REFOLO
Beaufort fu il primo a classificare i venti. Era il 1806.
Le correnti oggi, come molte malattie si possono prevedere; ma talvolta, nonostante tutto ma proprio tutto il possibile, no. Esse arrivano all'improvviso, scuotono le anime e piegano le teste.
Avevo da poco finito di arginare una burrasca nella corsia ospedaliera in Geriatria dove lavoro, che la sera un uragano si è abbattuto sul mio cuore. Facendolo rimbalzare. Che fosse Pasqua non importa, i disastri non badano ai riposi degli uomini e non tengono conto delle festività. Scontrosi.
Lei, mamma, è a Roma e quella cosa sul collo aveva eroso silenziosamente il suo corpo.
Avremmo avuto solo un mese per noi e molti venti da vivere.
Quando da Biella mi sono precipitata nella sua camera da letto in ospedale, l'ho abbracciata per tanti minuti. Non posso dire se cinque dieci o venti.
No. Erano minuti. Un minuto più un minuto più un minuto.
Ognuno con il suo specifico valore.
Il tempo, quando stringe, si allarga.
Poi, vista la diagnosi infausta per i medici, che decretava la sua morte ho deciso di portarla a casa.
La sua amatissima e unica casa.
Sono un'infermiera e davanti a me c'è la paziente più difficile della mia carriera lavorativa: mia madre. Faccio fatica a somministrarle quei farmaci, che solitamente do con disinvoltura ai miei pazienti. I suoi polmoni si stanno chiudendo.
Ed io intuisco ogni momento.
Cerco di ritagliarmi degli spazi come figlia, gli ultimi. Mi faccio piccola nel suo letto, come da bambina. Lei apprezza la mia immobilità ed il mio silenzio.
La morte che ho frequentato da bambina con mio padre e con i miei pazienti, è di nuovo qui. Solo che ancora non si è presa definitivamente ciò che adesso ho di più caro.
Accolgo le sue lacrime e fingo una sicurezza che di solito mi appartiene abbracciandola.
Fisso sui polpastrelli il ricordo della sua pelle. Come un collezionista, raccolgo le sue tracce accarezzandola. Quelle che un giorno mi permetteranno di ricostruire un percorso attorno al suo corpo. Come un animale selvatico e affannato faccio scorte di sensazioni per quella tramontana che a breve mi travolgerà. E lei fa una valigia di me con le sue ultime forze cercando il mio viso con le sue mani stanche.
Dalle quattro stagioni che ci sono in un anno, passerò ad una sola senza di lei. Per sempre.
Chiamandola, anche a gran voce, non si girerà più. Non è permesso.
Muore.
Ed io muoio con lei: non sono più figlia.
Non guardo più le correnti, che facciano quel che vogliono. Che vadano a trovare chi vogliono.
Quel tumore tanto ha tolto l'aria anche a me.
Ma quando si avvicina lo scirocco, la brezza calda che porta i temporali, ripenso all'ultima delle notti insieme. Quelle erano le più dolci gocce suonate dal vento, nel nostro ultimo concerto. Le ho sentite picchiettare sulle persiane ed ho immaginato il loro inevitabile scivolare sul ferro freddo e ruvido. Precipitata anch'io.
Tic-Tic-Tic-Tic-Tic-Tic.
Una ad una.
Ma non chiamatela pioggia.
Ognuna aveva un nome proprio ed una voce.

Racconto estratto dal sito. Internet" Vivilatutta"
“Non è tanto quello che facciamo, ma quanto amore mettiamo nel farlo. Non è tanto quello che diamo, ma quanto amore mettiamo nel dare.”
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