TUMORI:FEDE AIUTA CONTRO IL CANCRO
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Quando le parole feriscono i malati di cancro come coltelli.
Quante notizie, atteggiamenti, frasi, irritano o addirittura feriscono i malati di tumore? Quanti ancora i pregiudizi che stigmatizzano la malattia e rendono ancor più difficile e pieno di ostacoli il già duro cammino verso la guarigione o la cronicizzazione? Si potrebbe obiettare che non è facile saper stare accanto e sostenere una persona che si trova, all'improvviso, a dover affrontare il cancro! Solo la parola incute un timore cieco quando non è accompagnato da odiosa scaramanzia.
E' anche vero che che il malato diventa spesso insofferente, facilmente irritabile, intollerante, forse eccessivamente sensibile e permaloso e che, quindi, anche i parenti e gli amici devono fare i conti con la mutata condizione cui adeguarsi, per poter vivere accanto al malato e condividere le emozioni e le risorse necessarie ad affrontare la crisi oncologica.
L'esperienza maturata sul campo suggerisce in primo luogo di evitare atteggiamenti superficiali che hanno l'effetto, spesso inconsapevole ma non per questo meno intollerabile, di banalizzare la malattia e di allontanare il dramma quasi a volerlo rifiutare. Frasi come: «Forza e coraggio..., con le cure che ci sono oggi..., ma non ti preoccupare dei capelli sono il male minore...» provocano reazioni, non sempre esplicitate, di insofferente rabbia e delusione verso chi le ha pronunciate accompagnate da un retro pensiero "ma cosa ne puoi sapere tu, mica hai il cancro!".
Fermarsi un momento per dedicarsi all'ascolto di chi sta vivendo un momento difficile della propria vita, spesso, è molto più che tante, insignificanti parole.
Ancor più insopportabile è la comunicazione anche non verbale di significato pietistico o anche solo pietoso. Guai! Guai, ad avvicinarsi ad un malato con frasi del tipo «poverino..., mi dispiace tanto per te..., devi stare proprio male...». Ma attenzione anche a complimenti forzati ed esagerati come "stai benissimo, non sembra che tu sia malata o che stia facendo la chemioterapia".
Anche le dichiarazioni di ammirazione per il coraggio e la forza dimostrate nell'affrontare la malattia servono a poco, dal momento che nessuno di noi conosce le risorse interiori di cui potrebbe disporre nel momento della necessità e poi sentirsi degli eroi perché si ha il cancro non fa piacere a nessuno, chiunque, se potesse, preferirebbe la salute all'eroismo!
«Certo che il tuo è proprio un miracolo, chi l'avrebbe mai detto?». E certo, fa piacere sentirsi un sopravvissuto scampato a morte certa oppure un men dead walking! Eppure quante volte sono state dette frasi come questa anche dai medici.
Tutto questo non significa che l'unica comunicazione possibile sia il silenzio, ma la spontaneità e la disponibilità all'ascolto sono le chiavi per entrare nel cuore della persona che si ammala di tumore per esserle vicino e sostenerla nell'affrontare ed elaborare l'esperienza che si trova a vivere. E allora, e solo allora, insieme si potrà anche ridere, riflettere, arrabbiarsi, sfogarsi e riprendersi la vita!
Rischiose, oltre che inutili, le affermazioni che indicano come falsi miti la pericolosità di uso e abuso di fumo e alcool o quelle sull'inutilità della prevenzione e sui corretti stili di vita (alimentazione, peso, movimento).
Ma c'è un un aspetto ancora poco noto e disconosciuto della malattia oncologica: la cronicità.
I malati cronici di cancro o lungosopravviventi oncologici non sono una chimera o una semplice speranza: sono realtà, esistono e saranno sempre di più perché di cancro ci si ammala sempre di più e con il cancro si convive sempre più a lungo (quando la guarigione non è possibile). Ma i cancer survivor rischiano di essere disabili invisibili perché, anche a causa dei falsi pregiudizi e per evitare ingiuste discriminazioni sociali e lavorative spesso scelgono la via del silenzio e dell'oblio.
«Se lo nego non t'accorgi se lo dico ti sconvolgi», questo il senso di un atteggiamento difensivo e di negazione di una parte del proprio percorso di vita che serve, o almeno si pensa che serva, ad evitare lo stigma e a ritornare alla "normalità" precedente la diagnosi. Ma la vita dopo il cancro non è mai, mai più, la stessa, spesso è più ricca, almeno interiormente, e solo sfatando certi falsi miti e facendo outing, che si potrà arrivare al giusto e sereno riconoscimento di una vita riconquistata dopo la malattia o con la malattia. È inaccettabile doversi nascondere per il timore di essere esclusi dai rapporti sociali o, ancor più preoccupante soprattutto in questi tempi, di essere allontanati dal lavoro.
La cronicità oncologica è, ancor oggi, un profilo appena abbozzato nell'immaginario collettivo, che teme il cancro come malattia comunque mortale, anche se curabile con grandi sofferenze e per periodi di tempo limitati. La cronicità oncologica, anziché opportunità di vita, rischia di diventare una condizione di intensa sofferenza, se non è affrontata e supportata adeguatamente nella sua complessità che investe non solo la dimensione strettamente clinica del problema (nelle sue accezioni mediche e psicologiche) ma anche la sfera familiare, lavorativa, economica e sociale del malato.
Devono essere valorizzate e fatte conoscere sempre di più le vite di donne e uomini che dopo un tumore ritornano alla vita di tutti i giorni. Un forte messaggio di speranza da cui può partire la rivoluzione anche culturale nei confronti del cancro.
Insieme possiamo!
Gli entusiastici proclami di formidabili scoperte scientifiche che promettono la definitiva e totale sconfitta del tumore fanno male ai pazienti che mal tollerano certa "superficialità" nel creare aspettative e speranze che spesso si rivelano illusorie o comunque lontane dalla realtà attuale.
Certamente negli anni, la percezione nei confronti del cancro si è evoluta, ma nel vissuto sociale e nell'immaginario collettivo è rimasta, comunque, qualche passo indietro rispetto ai risultati ottenuti dalla comunità scientifica: quante volte si sente ancora dire "brutto male"... come se la malattia potesse essere "bella", o peggio, quando si parla di "un male incurabile", mentre è proprio la persona che non ha speranza di guarire a potere, anzi dovere essere curata!
Elisabetta Iannelli
Segretario Favo
(Federazione delle associazioni di volontariato in oncologia)
Quante notizie, atteggiamenti, frasi, irritano o addirittura feriscono i malati di tumore? Quanti ancora i pregiudizi che stigmatizzano la malattia e rendono ancor più difficile e pieno di ostacoli il già duro cammino verso la guarigione o la cronicizzazione? Si potrebbe obiettare che non è facile saper stare accanto e sostenere una persona che si trova, all'improvviso, a dover affrontare il cancro! Solo la parola incute un timore cieco quando non è accompagnato da odiosa scaramanzia.
E' anche vero che che il malato diventa spesso insofferente, facilmente irritabile, intollerante, forse eccessivamente sensibile e permaloso e che, quindi, anche i parenti e gli amici devono fare i conti con la mutata condizione cui adeguarsi, per poter vivere accanto al malato e condividere le emozioni e le risorse necessarie ad affrontare la crisi oncologica.
L'esperienza maturata sul campo suggerisce in primo luogo di evitare atteggiamenti superficiali che hanno l'effetto, spesso inconsapevole ma non per questo meno intollerabile, di banalizzare la malattia e di allontanare il dramma quasi a volerlo rifiutare. Frasi come: «Forza e coraggio..., con le cure che ci sono oggi..., ma non ti preoccupare dei capelli sono il male minore...» provocano reazioni, non sempre esplicitate, di insofferente rabbia e delusione verso chi le ha pronunciate accompagnate da un retro pensiero "ma cosa ne puoi sapere tu, mica hai il cancro!".
Fermarsi un momento per dedicarsi all'ascolto di chi sta vivendo un momento difficile della propria vita, spesso, è molto più che tante, insignificanti parole.
Ancor più insopportabile è la comunicazione anche non verbale di significato pietistico o anche solo pietoso. Guai! Guai, ad avvicinarsi ad un malato con frasi del tipo «poverino..., mi dispiace tanto per te..., devi stare proprio male...». Ma attenzione anche a complimenti forzati ed esagerati come "stai benissimo, non sembra che tu sia malata o che stia facendo la chemioterapia".
Anche le dichiarazioni di ammirazione per il coraggio e la forza dimostrate nell'affrontare la malattia servono a poco, dal momento che nessuno di noi conosce le risorse interiori di cui potrebbe disporre nel momento della necessità e poi sentirsi degli eroi perché si ha il cancro non fa piacere a nessuno, chiunque, se potesse, preferirebbe la salute all'eroismo!
«Certo che il tuo è proprio un miracolo, chi l'avrebbe mai detto?». E certo, fa piacere sentirsi un sopravvissuto scampato a morte certa oppure un men dead walking! Eppure quante volte sono state dette frasi come questa anche dai medici.
Tutto questo non significa che l'unica comunicazione possibile sia il silenzio, ma la spontaneità e la disponibilità all'ascolto sono le chiavi per entrare nel cuore della persona che si ammala di tumore per esserle vicino e sostenerla nell'affrontare ed elaborare l'esperienza che si trova a vivere. E allora, e solo allora, insieme si potrà anche ridere, riflettere, arrabbiarsi, sfogarsi e riprendersi la vita!
Rischiose, oltre che inutili, le affermazioni che indicano come falsi miti la pericolosità di uso e abuso di fumo e alcool o quelle sull'inutilità della prevenzione e sui corretti stili di vita (alimentazione, peso, movimento).
Ma c'è un un aspetto ancora poco noto e disconosciuto della malattia oncologica: la cronicità.
I malati cronici di cancro o lungosopravviventi oncologici non sono una chimera o una semplice speranza: sono realtà, esistono e saranno sempre di più perché di cancro ci si ammala sempre di più e con il cancro si convive sempre più a lungo (quando la guarigione non è possibile). Ma i cancer survivor rischiano di essere disabili invisibili perché, anche a causa dei falsi pregiudizi e per evitare ingiuste discriminazioni sociali e lavorative spesso scelgono la via del silenzio e dell'oblio.
«Se lo nego non t'accorgi se lo dico ti sconvolgi», questo il senso di un atteggiamento difensivo e di negazione di una parte del proprio percorso di vita che serve, o almeno si pensa che serva, ad evitare lo stigma e a ritornare alla "normalità" precedente la diagnosi. Ma la vita dopo il cancro non è mai, mai più, la stessa, spesso è più ricca, almeno interiormente, e solo sfatando certi falsi miti e facendo outing, che si potrà arrivare al giusto e sereno riconoscimento di una vita riconquistata dopo la malattia o con la malattia. È inaccettabile doversi nascondere per il timore di essere esclusi dai rapporti sociali o, ancor più preoccupante soprattutto in questi tempi, di essere allontanati dal lavoro.
La cronicità oncologica è, ancor oggi, un profilo appena abbozzato nell'immaginario collettivo, che teme il cancro come malattia comunque mortale, anche se curabile con grandi sofferenze e per periodi di tempo limitati. La cronicità oncologica, anziché opportunità di vita, rischia di diventare una condizione di intensa sofferenza, se non è affrontata e supportata adeguatamente nella sua complessità che investe non solo la dimensione strettamente clinica del problema (nelle sue accezioni mediche e psicologiche) ma anche la sfera familiare, lavorativa, economica e sociale del malato.
Devono essere valorizzate e fatte conoscere sempre di più le vite di donne e uomini che dopo un tumore ritornano alla vita di tutti i giorni. Un forte messaggio di speranza da cui può partire la rivoluzione anche culturale nei confronti del cancro.
Insieme possiamo!
Gli entusiastici proclami di formidabili scoperte scientifiche che promettono la definitiva e totale sconfitta del tumore fanno male ai pazienti che mal tollerano certa "superficialità" nel creare aspettative e speranze che spesso si rivelano illusorie o comunque lontane dalla realtà attuale.
Certamente negli anni, la percezione nei confronti del cancro si è evoluta, ma nel vissuto sociale e nell'immaginario collettivo è rimasta, comunque, qualche passo indietro rispetto ai risultati ottenuti dalla comunità scientifica: quante volte si sente ancora dire "brutto male"... come se la malattia potesse essere "bella", o peggio, quando si parla di "un male incurabile", mentre è proprio la persona che non ha speranza di guarire a potere, anzi dovere essere curata!
Elisabetta Iannelli
Segretario Favo
(Federazione delle associazioni di volontariato in oncologia)
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Oggi di cancro si può vivere e sempre più a lungo.Come può essere vissuta la vita...
Riporto per intero un lavoro svolto da due psicongologhe:
Il sostegno psicologico:
un percorso emotivo
all’interno dei gruppi.
Paola Bertolotti
Psicologa e psicoterapeuta.
Conduce in Associazione i gruppi di sostegno psicologico
“Riprogettiamo l’esistenza” e “Decido di vivere”.
Dott.ssa Antonella Varetto.
S.C.D.U. Psico-oncologia, A.S.O. Molinette, Torino
http://www.attive.org/
“La cura della malattia e la cura della persona sono due aspetti inscindibili
di un’azione con un solo fine: aiutare a vivere”
Oggi di cancro si può vivere e sempre più a lungo.
Ma come può essere vissuta la vita da chi ha alle spalle una diagnosi di
cancro?
La necessità di doversi occupare anche degli aspetti umani e psicologici
della persona che si trova ad affrontare una delle esperienze tra le più
destabilizzanti, sta diventando un obiettivo fortemente e concretamente
condiviso da pazienti, medici e psicologi che riconoscono le potenzialità
di questa preziosa integrazione della “cura della malattia” e della “cura
della persona”.
Il sostegno psicologico
Il cancro è una malattia che entra violentemente nella vita e ne interrompe
bruscamente la continuità, inducendo un profondo senso di incertezza e di
impotenza. Incertezza perché il domani ora è rappresentato dall’incognita
e la paura di soffrire e di morire toglie le energie per riuscire a vivere
la quotidianità. Impotenza in quanto gli eventi che si susseguono fin dal
primo istante, in cui si scopre di essere passati repentinamente da uno
stato di salute a quello di malattia, sembrano essere fuori da ogni possibile
controllo e niente sembra essere affrontabile come lo era prima.
È un’esperienza che investe tutte le dimensioni dell’esistenza: psicologica,
fisica, umana, spirituale.
Possiamo pensare a come il concetto di identità personale sia racchiuso,
principalmente, nel corpo e come questa identità possa essere minacciata
al momento della diagnosi che, quasi sempre, è vissuta come una sentenza
di morte. Minacciata dagli accertamenti e dagli approfondimenti clinici che,
in quanto fuori dal proprio controllo, determinano uno stato di ansia, di
frammentazione e di impotente dipendenza dagli eventi. In una condizione
nella quale sentimenti di disperazione, di angoscia e di rifiuto possono alternarsi
a momenti di “anestesia emotiva” altrettanto dolorosa.
Anche l’intervento chirurgico, che fortunatamente oggi, per molti tipi
di tumore, è sempre meno invalidante, può modificare negativamente la
rappresentazione che ognuno ha del proprio corpo. Così come le terapie
oncologiche e i trattamenti medici spesso pesanti che, oltre a una profonda
stanchezza che si ripercuote su molti aspetti del vivere, inducono effetti
che toccano, ancora una volta, la sfera della propria identità: la perdita
dei capelli, il cambiamento del proprio corpo e delle sue percezioni o la
menopausa indotta, spesso molto in anticipo rispetto all’età biologica, che
mette la persona nelle condizioni di doversi forzatamente confrontare con
aspetti di sé non previsti.
E poi la preoccupazione per ciò che riguarda quell’area dell’esistenza
legata agli affetti (i rapporti famigliari, i rapporti con i figli, con il partner,
con gli amici) che attiva emozioni contrastanti: da una parte il bisogno di
essere compresi, ascoltati e rassicurati e dall’altra la faticosa necessità di
proteggere le persone care dall’ondata di dolore da cui si è invasi.
In ultimo, ma non meno importante, tutti i pensieri legati agli aspetti più
trascendenti “dell’essere” di ciascuno che riguardano il senso stesso che
ognuno dà alla vita e a ciò che può esistere in una vita “oltre”.
Sostenere psicologicamente chi vive questa esperienza, significa “prendersi
cura” della persona in un momento in cui la malattia ha modificato
in modo sostanziale la sua vita.
In un momento di grande sofferenza psicologica, causata dai tentativi di
trovare efficaci risorse interiori per gestire e affrontare questo terremoto
emotivo..
In un momento in cui la malattia ha dato inizio ad un processo di crisi che
potrà portare a due possibilità: riconoscere le potenzialità maturative di
questa esperienza o, al contrario, rimanerne intrappolati, vivendola come
un punto finale della propria vita, come un evento senza senso e come una
totale sconfitta personale.
La teoria sulla quale fonda il metodo di lavoro che Attivecomeprima ha
costruito negli anni e sperimentato costantemente nella sua validità, ha un
presupposto fondamentale: confrontarsi con le emozioni intense e profonde
che il cancro ha determinato, legate al senso di provvisorietà, alla
paura di soffrire e di morire, dà la possibilità di ridimensionarle, di ridurre
la sofferenza emotiva e di guardare all’evento come un’opportunità per
riequilibrare la propria vita, per riordinarne le priorità e per trovare un più
autentico senso di sé e dei propri affetti. E tutto questo indipendentemente
dalla malattia e dalle condizioni fisiche del momento.
Il gruppo
“La vita umana si è sempre svolta nei gruppi. Condividere costituisce un
elemento essenziale dell’esperienza…” (Foulkes)
Il gruppo racchiude in sé una grande potenzialità di cura.
Abbiamo sperimentato tutti come far parte di un gruppo possa aiutare ad
attraversare momenti evolutivi cruciali, favorendo il rispecchiamento e la
condivisione e facendo sentire accettati e sostenuti nell’affrontare cambiamenti
anche importanti nella propria vita.
Ancor più lo diventa per chi è costretto a confrontarsi con una malattia
ad esito incerto della quale, fino a non molto tempo fa, era impossibile
parlare agli altri e persino parlarne a sé stessi.
Quando non si pensava che affrontare con consapevolezza gli aspetti cruciali
e dolorosi di una malattia come il cancro e con l’idea di poter morire,
potesse rappresentare, paradossalmente, una spinta positiva verso il vivere.
Quello che nel gruppo si sperimenta è, prima di tutto, “l’essere non più
soli”. Presto si scopre che le emozioni che tanto spaventano come la paura,
la rabbia, il rifiuto, il senso di sconforto e di fallimento, sono comuni
ad altri e come diventi possibile, in un clima rassicurante dove si parla lo
stesso linguaggio, riconoscere, legittimare e trasformare queste emozioni,
senza sentirsene paralizzati.
Il gruppo diventa il luogo dove le angosce e i pensieri più dolorosi possono
essere espressi ed affrontati; dove poter parlare apertamente di tutto ciò
che preoccupa, anziché impegnare una quantità enorme di energie con lo
scopo di reprimere questi sentimenti.
Ed è anche un luogo dove è possibile potersi confrontare con altre modalità di
reazione alla malattia per poter in qualche modo, “apprendere” nuovi pensieri.
Il sostegno psicologico in Attive
Il lavoro di sostegno psicologico, ruota attorno a tre gruppi, chiamati simbolicamente
“Riprogettiamo l’Esistenza”, “Decido di Vivere”, “La Terapia
degli Affetti”. Abbiamo scelto di strutturarli, fin dall’inizio, non come
gruppi di “auto-aiuto” che hanno altre finalità e procedure, ma costruendo
una metodologia originale, appositamente creata per dare risposta ai bisogni
emotivi dei pazienti.
Questi gruppi sono consequenziali tra loro, hanno una durata di otto incontri
i primi e di venti incontri l’ultimo. Vi partecipano donne (ma non è esclusa
la possibilità di inserire anche uomini o di comporre il gruppo solo di questi)
di differenti età, condizione fisica, culturale e sociale che hanno avuto
un qualsiasi tipo di tumore.
Possono parteciparvi dal momento della diagnosi, durante e dopo le terapie
oncologiche, anche a distanza di anni.
Abbiamo scelto di comporre i gruppi in maniera eterogenea per diagnosi
e situazione clinica in quanto si è visto negli anni, che il vantaggio di trovarsi
con chi vive una ripetizione di malattia o una situazione fisica molto
difficile, è in realtà maggiore dello svantaggio che potrebbe derivare dal
confrontarsi con problematiche diverse dalla propria. Questo perché in
una situazione “protetta” si possono affrontare concretamente i fantasmi
delle proprie paure, capire come si può essere sostenuti e come non si è
lasciati soli.
La conduzione del gruppo è affidata a uno psicologo clinico il cui compito
non è quello di spingere verso trasformazioni profonde, ma quello
di controllare l’evoluzione del clima affettivo e di creare la “cultura del
gruppo”: trasmettere cioè la consapevolezza che, qualsiasi pensiero e
sentimento può essere espresso e accolto.
A fianco del conduttore è presente una fiduciaria (ex paziente appositamente
formata per lavorare a fianco degli specialisti dopo aver fatto la sua
personale esperienza nei gruppi) che rappresenta l’evidenza di chi vive
dopo la malattia, magari meglio di prima, e che diventa così uno stimolo
forte per rispecchiarsi in una identità positiva.
L’atmosfera di accettazione e senza giudizio che si ha cura di mantenere
anche tra i partecipanti, è la base indispensabile per riuscire a spostare
l’attenzione da un livello che inizialmente riguarda quasi esclusivamente
gli aspetti della malattia, ad un livello più profondo di vissuto personale.
“Riprogettiamo l’Esistenza”
È la prima tappa del percorso.
L’obiettivo, all’interno di questo gruppo, è quello di offrire un contenitore
dove poter esprimere il più liberamente possibile, in un linguaggio condiviso,
emozioni e vissuti legati all’esperienza della malattia e dove poter
parlare liberamente della paura della sofferenza e della morte.
Molti, non solo i pazienti, credono che avere il controllo sulle emozioni
possa influenzare il decorso della stessa malattia, e che rimanere “forti” e
non pensare al peggio, aiuti a non essere sopraffatti dalla paura. Sappiamo
che non è così, perchè l’energia spesa per reprimere le emozioni negative
che invece, a dispetto di ciò, premono più forte che mai, produce una
sofferenza emotiva ancora più grande, facendo sentire ancora più soli.
La lettura di un testo, appositamente costruito, avvia un cammino a ritroso
verso i primi momenti dell’esperienza, e introduce la consapevolezza di
poter riuscire ad affrontare gli aspetti più cruciali, che l’incontro con il
cancro ha fatto emergere, legati al senso della propria esistenza.
Ci si avvicina gradualmente ai temi della sofferenza e della morte, dell’insicurezza
di come affrontare il futuro, scoprendo che sono queste le paure
che influenzano negativamente la capacità di vivere anche il quotidiano.
Facendo emergere ciò che prima ognuno sentiva, ma non riusciva ad
esprimere, l’argomento della morte e della paura del domani, diventano
qualcosa di più tollerabile e gestibile e il futuro assume un significato diverso;
così come comincia ad assumere un significato diverso la speranza.
Speranza innanzitutto di poter guarire ma anche di riuscire ad affrontare
e superare le difficoltà senza farsi paralizzare dalla paura, speranza di
poter dare un significato nuovo alla vita, speranza di poter vivere meglio e
forse… anche di più.
Più si accetta il confronto aperto con la sofferenza emotiva legata a questa
esperienza più diventa possibile spostare l’attenzione dalla malattia,
distaccarsi da essa, affrontare altri aspetti della propria esistenza e dare
un significato più accettabile a quanto è successo, considerandolo non più
come una catastrofe, ma come una opportunità per dare un colore nuovo
alla vita.
Gli incontri sono intensi, a volte dolorosi, a volte divertenti e, nonostante
il lavoro non sia sempre in discesa, alla fine l’ansia, la negazione e la
depressione si attenuano.
“Decido di Vivere”
È la seconda tappa del percorso.
Dopo aver elaborato, nel gruppo precedente, la paura della sofferenza
e della morte, si è ora guidati da un testo che si propone di affrontare il
tema del cambiamento. Si cercano nuove modalità di pensiero e un nuovo
modo di interpretare l’esperienza della malattia.
Nuove modalità che possano aiutare a convogliare le energie nella vita e
verso sé stessi, al di là di quanto è accaduto o proprio perché è accaduto.
Raccontandosi, vengono attraversati i momenti più significativi della propria
vita, riconoscendo il modo in cui si sono affrontati, con la consapevolezza,
spesso nuova, che gli aspetti positivi di sé non si sono persi solo
perché ci si è ammalati.
Gradualmente si diventa sempre più partecipi degli eventi, anche quelli
più difficili e diventa necessario intraprendere la strada del cambiamento,
assolutamente unico ed individuale, che la malattia ha indicato.
Più aumenta la capacità di guardare in un modo nuovo agli eventi, più si
allontanano i fantasmi legati all’idea della malattia e della morte e si riesce
a dare voce a quelle parti di sé alle quali, per vari motivi, si era dovuto
rinunciare.
Prende corpo il desiderio di fare chiarezza e di ristabilire le priorità dei
valori che, alla luce della sofferenza, sono cambiati.
Indipendentemente da ciò che potrebbe accadere domani, si trovano le
risorse per valorizzare l’oggi e aprire una prospettiva nuova all’esistenza.
“La Terapia degli affetti”
“L’anima umana è pronta ad angosciarsi di fronte al male, ma ha sempre
in sé anche le risorse che riescono a combatterlo” (F. Fornari)
È la terza tappa del percorso.
Il tema focale non è più la malattia, ma la necessità di riorganizzare, in
modo graduale e pacifico, le emozioni già emerse ed accolte nei gruppi
precedenti.
La tecnica di conduzione è molto orientata a favorire un continuo scambio
tra ordine del giorno e ordine delle notte, tra la descrizione dei fatti e delle
esperienze e la loro lettura in chiave affettiva profonda.
L’infelicità, l’intrappolamento e la crisi, così come la felicità, la libertà
e la crescita trovano, in questo nuovo scenario, un senso più originario.
Riappacificarsi con il proprio Sé, utilizzare le risorse affettive in modo
nuovo, saper desiderare anche altro rispetto a ciò che si è sempre, talvolta
inutilmente, voluto, sono obiettivi possibili perché nel copione degli
affetti vi sono risorse pronte all’uso, soprattutto se li si può svincolare da
blocchi che, per questioni evolutive o traumatiche, le tenevano imprigionate.
I principali benefici di questo articolato percorso sono:
• L’uscita dall’isolamento e dalla solitudine;
• L’opportunità di esprimere emozioni, pensieri e paure;
• Il rafforzamento dell’autostima, dell’assertività e dell’autonomia;
• La diminuzione della depressione e della fragilità emotiva;
• Maggiore energia per affrontare i cambiamenti derivati dall’esperienza
traumatica della malattia;
• Maggiore capacità di affrontare condizioni fisiche difficili;
• La possibilità di ricostruire una immagine nuova e integrata di sé;
• La riduzione della dipendenza familiare, sanitaria, sociale;
• La consapevolezza di poter contribuire così al proprio processo di
cura, di guarigione e, comunque, a un significativo miglioramento
esistenziale.
Le parole delle donne
Da alcune delle parole espresse e raccolte durante il lavoro nei gruppi, si
può ancor meglio comprendere il percorso di adattamento all’evento malattia.
Come solamente l’accettazione e l’elaborazione di questa esperienza
e di tutte le sue dolorose implicazioni, porti al suo superamento, fino
a rendere possibile rinnovare il significato del vivere al di là del tempo
riservato ad ognuno.
“Il cancro irrompe nella vita come un uragano, vanno in frantumi i progetti,
le certezze, non ha più senso la quotidianità, non sai più chi sei e
chi sarai…”
“Perché proprio a me? Questo pensiero mi sveglia di notte e mi trapassa
il cuore come un pugnale. E ogni volta è come fosse la prima volta! Che
dolore e che paura.”
“Affiorano brani dolorosi di vita vissuta, rimasti dentro, allacciati al tempo
passato. Guardo indietro con rimorsi e con rimpianti: e il futuro?”
“Domani, ecco che inesorabilmente arriverà domani. Sarà il giorno della
chemioterapia, quella che mi riporta al dolore, alla rabbia per quanto è
successo, alle lacrime che ricompaiono sempre ogni volta che il pensiero
si ferma lì.”
“Vorrei evadere un po’ dal dolore, ascoltare solo me stessa, camminare in
un campo pieno di fiori del quale non si vede l’orizzonte.”
“Penso a cose mai godute, a sentimenti mai espressi. Non trovo più niente
a posto, provo un senso di perdita, di vuoto, di impotenza”.
“Mi trovo come davanti a un bivio e non so se vincerà la malattia o la
vita. Sono tentata di fermarmi ad attendere con rassegnazione gli eventi,
ma vorrei poter trovare la forza di andare incontro a me stessa e tuffarmi
nella vita.”
“Nel buio mi sembra di scorgere un piccolo spiraglio di luce: gli vado
incontro, determinata a trovarlo e spero che si possa ingrandire”.
“Non è un’altra ferita, è l’ultima, quella che ha portato in superficie tutte
le altre, quelle interne, che ora non puoi più ignorare. E se continui a
farlo allora davvero muori.
Per il resto, stai tranquilla, fidati! È un’opportunità.”
“Non permetto più che la paura del domani mi impedisca di essere me
stessa oggi. Mi sento viva, anzi rinata e questo mi fa bene per oggi e per
domani. Sto imparando a non lasciar scorrere nel vuoto il tempo e ad
aprire il cuore a tutto ciò che mi circonda.”
“Il tempo che mi è dato voglio utilizzarlo al meglio, voglio concedermi
di vivere le emozioni, di arricchirlo. Non voglio più trascurarlo come un
sacco vuoto.”
“Coraggio, ore di paura verranno ancora, ma voglio andare oltre, cercare
sempre una parte di me stessa che mi aiuti a trovare la luce.
Non lotto più contro la paura, mi lascio attraversare e poi… se ne va”.
“Avevo già deciso di vivere, ma quale vita? Correvo il rischio di vivere
quella di prima. Ho imparato a riprogettare la mia esistenza: ora ne sono
più consapevole.”
“Avevo già troppi problemi, non poteva cadermi in testa anche questa tegola.
Non riuscivo a reagire, non mi interessava più nulla, ho toccato veramente
il fondo, fisicamente e psicologicamente. Poi ho trovato ascolto,
condivisione, persone con le quali potevo piangere, ridere, amare, odiare,
parlare o stare zitta.”
“Ho soprattutto imparato ad accettare di aver avuto un cancro. Da quel
momento mi sono resa conto di essere giunta a un bivio: mi lascio morire
o decido di vivere? Insomma cosa faccio della mia vita? Il bisogno di
chiarezza mi ha fatto prendere la direzione giusta.”
“Ho guardato nel profondo me stessa e vi ho visto scritta la mia vita; nel
rileggerla ho trovato ciò che di me non conoscevo: ho accettato quelle
parti nascoste sentendole come una nuova risorsa.”
“Ho riscoperto il valore della mia esistenza. Non resto più inerme ad
aspettare la morte ma è come se chiedessi a lei di aspettare me.”
“Ora posso pronunciare e scrivere la parola cancro senza più sentirmi
male; sono guarita dalla paura.”
“La morte è divenuta un pensiero familiare, immaginata come un tempo
da vivere e, se possibile, da preparare. Un’idea forte che mi spinge a
vivere meglio di prima, a ridimensionare i problemi.”
“Sento di esistere in un lungo e continuo presente. Una dimensione quieta,
serena, che mi aiuta a capire che la morte fa parte della vita.”
“Una forza nuova è dentro di me: come una magia che trasforma le cose, le
rende belle e mi porta ad apprezzare le piccole cose che prima trascuravo.”
Dott.ssa Antonella Varetto.
S.C.D.U. Psico-oncologia, A.S.O. Molinette, Torino
Le psicoterapie di gruppo in oncologia
Il metodo di Attivecomeprima deve essere inquadrato nell’insieme degli
interventi psicologici a disposizione delle pazienti ammalate di cancro.
Non risulta oggi più possibile far riferimento a una sola teoria psicologica,
soprattutto in funzione dell’elaborazione di un programma terapeutico che
deve tener conto di diverse variabili: le esperienze individuali del paziente,
le modalità soggettive di reazione nei diversi stadi della malattia,
l’ambito nel quale viene realizzato il programma terapeutico, gli operatori
che lo realizzano.
Le psicoterapie in ambito oncologico sono suddivise in categorie in base
alla tecnica utilizzata ed alla teoria alla quale si riferiscono:inoltre possono
essere applicate individualmente o in gruppo. Ed è proprio nell’ambito
delle terapie che vedono il gruppo come fattore terapeutico, che si sviluppa
il metodo di Attivecomeprima; metodo che è stato costruito sull’ascolto
dei bisogni delle migliaia di pazienti incontrati e che presenta delle
differenze, anche sostanziali, da altri in uso in ambito oncologico, dei
quali ora farò un excursus teorico.
Per gruppo s’intende un insieme di persone di numero maggiore a due che
interagiscono tra loro. Il valore terapeutico dell’appartenere ad un gruppo
risiede nella possibilità, da parte dei pazienti, di sviluppare modelli nuovi
e più funzionali di socializzazione; inoltre il gruppo funziona da “specchio”
incentivando il comportamento imitativo e, sviluppando la tendenza
coesiva, fornisce la possibilità di condividere la richiesta e l’offerta di
cure, rompendo l’isolamento generato dalla malattia (Foulkes, 1967) e
negli ultimi anni è stato sempre più utilizzato in oncologia.
Gli obiettivi specifici delle terapie di gruppo in oncologia sono:
• uscire dall’isolamento: condividere esperienze ed emozioni con altri
malati all’interno del gruppo aumenta il senso di appartenenza e contrasta
la solitudine che i pazienti spesso avvertono, soprattutto dopo la
diagnosi;
• promuovere le risorse personali sentendosi utili per gli altri: ciò permette
di riacquistare fiducia nelle proprie capacità e percepirsi meno
impotenti;
• accrescere l’informazione: attraverso la condivisione dei problemi,
i partecipanti acquisiscono informazioni sulla loro condizione senza
percepirla “diversa”, in un clima di sostegno reciproco;
• migliorare le abilità di reazione alla malattia confrontandosi con le
modalità di reazione degli altri partecipanti;
• aumentare la capacità di comunicazione ed espressione emozionale sia
nel “qui e ora” del gruppo che nella realtà esterna. (Grassi et al, 2003).
Migliorano pertanto le relazioni sia con i medici che con i familiari
(Blake-Mortimer et al, 1999).
La psicoterapia di gruppo aiuta la persona a sentire, pensare e comportarsi
in modo nuovo rispetto al passato, utilizzando le relazioni fra pazienti e
fra pazienti e conduttore che si creano in quel momento all’interno del
gruppo. Il conduttore in genere è uno psicologo o uno psichiatra con una
formazione in psicoterapia di gruppo ed esperienza in oncologia. Solitamente
ha un colloquio individuale preliminare con la persona che intende
partecipare al gruppo per individuare se questo tipo di intervento è il
più adatto per la sua difficoltà. I gruppi infatti possono essere omogenei
per tipo di patologia oncologica, oppure per fase del tumore. Il numero
degli incontri può essere stabilito dal conduttore sin dall’inizio, oppure il
gruppo può essere aperto: i partecipanti cioè possono entrare o uscire dal
gruppo durante la sua vita. La scelta della durata degli incontri è stabilita
dal conduttore e può dipendere dalla tipologia dei partecipanti: ad esem21
pio i pazienti con malattia in fase avanzata beneficiano di trattamenti di
gruppo senza un tempo prestabilito, non strutturati e fondati su un’interazione
tra i membri (Costantini, 2002).
Il tema degli incontri può essere proposto dal conduttore; oppure può
essere flessibile e in questo caso sono i partecipanti a proporlo.
Come per la psicoterapia individuale, anche in quella di gruppo sono
utilizzati differenti orientamenti. I più diffusi e studiati nella popolazione
oncologica sono l’orientamento:
• supportivo – espressivo: è focalizzato sull’espressione dell’emozioni,
il sostegno fra i partecipanti al gruppo e l’approfondimento delle
tematiche esistenziali che l’evento malattia scatena (Spiegel e Classen,
2003);
• cognitivo – comportamentale: è l’approccio maggiormente studiato,
poiché si avvale di tecniche adatte per affrontare sintomi quali lo
stress, l’ansia e il dolore. Utilizza tecniche che permettono di modificare
i pensieri che sottostanno al comportamento. Il conduttore può
invitare i partecipanti a svolgere dei compiti fuori dal gruppo mirati ad
acquisire o rafforzare nuovi comportamenti. Alcune tecniche specifiche
utilizzate all’interno dei gruppi condotti con questo orientamento sono
il training autogeno e le visualizzazioni guidate (vedi precedentemente
nel capitolo);
• psicoeducativo: si basa su programmi di informazione che, con ausili
didattici (depliant, audiovisivi), incontri di discussione, incontri per
l’insegnamento di tecniche di gestione dello stress favoriscono la
conoscenza del paziente e dei familiari dei percorsi terapeutici, delle
problematiche cliniche, sociali ed emozionali correlate all’evento cancro,
migliorando il senso di controllo sul percorso di malattia (Fawzy
e Fawzy, 1994). Una importante applicazione degli interventi psicoeducativi
si ha nell’ambito dei programmi di screening genetico (Mc22
Daniel, 2005). In questo tipo di gruppo le interazioni fra i partecipanti
sono limitate ed il conduttore ha la funzione di facilitare l’apprendimento.
Molto diffusi in oncologia sono anche i gruppi di auto-aiuto che costituiscono
un intervento psicologico e non psicoterapeutico; forniscono
pertanto sostegno ai partecipanti, senza utilizzare tecniche specifiche,
ma sfruttando la forza del gruppo. Sono costituiti da pazienti uniformi
per patologia, o che presentano una stessa difficoltà e, occasionalmente,
si avvalgono della presenza di esperti esterni, a differenza dei gruppi di
psicoterapia nei quali il conduttore è parte integrante del processo di cambiamento.
La loro caratteristica è l’aiuto reciproco rispetto a un problema
già presente. I membri stabiliscono una relazione tra pari, ugualmente
coinvolti nella richiesta e nell’offerta di cure e di sostegno reciproco.
Agli incontri di gruppo possono essere associati colloqui con uno psicoterapeuta
o con altri specialisti.
Infine negli ultimi anni si sono affermati anche i gruppi di pazienti a scopo
terapeutico organizzati intorno ad attività quali la musica, la recitazione
e il ballo (Costantini e Grassi, 2004).
Nell’esperienza realizzata da alcuni anni a Torino, presso il Centro Oncoematologico,
attraverso l’associazione RAVI e con il metodo di Attivecomeprima,
si è cercato di realizzare praticamente quanto il far parte di un
gruppo possa aiutare una persona ammalata ad attraversare un momento
così difficile della vita. Alle donne dell’associazione e attraverso l’associazione
sono state offerti gruppi più strutturati secondo il metodo descritto
di Attivecomeprima, o gruppi focalizzati su tecniche di rilassamento,
in particolar modo training autogeno e, ove necessario, nel tempo, un
supporto individuale. L’utilità del gruppo viene continuamente rinnovata
nella partecipazione attiva alla vita dell’associazione e, se anche questo
non può dirsi atto psicoterapeutico in senso stretto, il vissuto di appartenenza
e la condividsione di obiettivi ed appuntamenti di volta in volta
diversi o che si rinnovano di anno in anno (dalla sfilata di moda alla conferenza
su argomenti di interesse comune) costutuisce quella base di forza
sulla quale le donne si appoggiano e che ritrovano anche nei momenti più
difficili del loro percorso.
Riporto per intero un lavoro svolto da due psicongologhe:
Il sostegno psicologico:
un percorso emotivo
all’interno dei gruppi.
Paola Bertolotti
Psicologa e psicoterapeuta.
Conduce in Associazione i gruppi di sostegno psicologico
“Riprogettiamo l’esistenza” e “Decido di vivere”.
Dott.ssa Antonella Varetto.
S.C.D.U. Psico-oncologia, A.S.O. Molinette, Torino
http://www.attive.org/
“La cura della malattia e la cura della persona sono due aspetti inscindibili
di un’azione con un solo fine: aiutare a vivere”
Oggi di cancro si può vivere e sempre più a lungo.
Ma come può essere vissuta la vita da chi ha alle spalle una diagnosi di
cancro?
La necessità di doversi occupare anche degli aspetti umani e psicologici
della persona che si trova ad affrontare una delle esperienze tra le più
destabilizzanti, sta diventando un obiettivo fortemente e concretamente
condiviso da pazienti, medici e psicologi che riconoscono le potenzialità
di questa preziosa integrazione della “cura della malattia” e della “cura
della persona”.
Il sostegno psicologico
Il cancro è una malattia che entra violentemente nella vita e ne interrompe
bruscamente la continuità, inducendo un profondo senso di incertezza e di
impotenza. Incertezza perché il domani ora è rappresentato dall’incognita
e la paura di soffrire e di morire toglie le energie per riuscire a vivere
la quotidianità. Impotenza in quanto gli eventi che si susseguono fin dal
primo istante, in cui si scopre di essere passati repentinamente da uno
stato di salute a quello di malattia, sembrano essere fuori da ogni possibile
controllo e niente sembra essere affrontabile come lo era prima.
È un’esperienza che investe tutte le dimensioni dell’esistenza: psicologica,
fisica, umana, spirituale.
Possiamo pensare a come il concetto di identità personale sia racchiuso,
principalmente, nel corpo e come questa identità possa essere minacciata
al momento della diagnosi che, quasi sempre, è vissuta come una sentenza
di morte. Minacciata dagli accertamenti e dagli approfondimenti clinici che,
in quanto fuori dal proprio controllo, determinano uno stato di ansia, di
frammentazione e di impotente dipendenza dagli eventi. In una condizione
nella quale sentimenti di disperazione, di angoscia e di rifiuto possono alternarsi
a momenti di “anestesia emotiva” altrettanto dolorosa.
Anche l’intervento chirurgico, che fortunatamente oggi, per molti tipi
di tumore, è sempre meno invalidante, può modificare negativamente la
rappresentazione che ognuno ha del proprio corpo. Così come le terapie
oncologiche e i trattamenti medici spesso pesanti che, oltre a una profonda
stanchezza che si ripercuote su molti aspetti del vivere, inducono effetti
che toccano, ancora una volta, la sfera della propria identità: la perdita
dei capelli, il cambiamento del proprio corpo e delle sue percezioni o la
menopausa indotta, spesso molto in anticipo rispetto all’età biologica, che
mette la persona nelle condizioni di doversi forzatamente confrontare con
aspetti di sé non previsti.
E poi la preoccupazione per ciò che riguarda quell’area dell’esistenza
legata agli affetti (i rapporti famigliari, i rapporti con i figli, con il partner,
con gli amici) che attiva emozioni contrastanti: da una parte il bisogno di
essere compresi, ascoltati e rassicurati e dall’altra la faticosa necessità di
proteggere le persone care dall’ondata di dolore da cui si è invasi.
In ultimo, ma non meno importante, tutti i pensieri legati agli aspetti più
trascendenti “dell’essere” di ciascuno che riguardano il senso stesso che
ognuno dà alla vita e a ciò che può esistere in una vita “oltre”.
Sostenere psicologicamente chi vive questa esperienza, significa “prendersi
cura” della persona in un momento in cui la malattia ha modificato
in modo sostanziale la sua vita.
In un momento di grande sofferenza psicologica, causata dai tentativi di
trovare efficaci risorse interiori per gestire e affrontare questo terremoto
emotivo..
In un momento in cui la malattia ha dato inizio ad un processo di crisi che
potrà portare a due possibilità: riconoscere le potenzialità maturative di
questa esperienza o, al contrario, rimanerne intrappolati, vivendola come
un punto finale della propria vita, come un evento senza senso e come una
totale sconfitta personale.
La teoria sulla quale fonda il metodo di lavoro che Attivecomeprima ha
costruito negli anni e sperimentato costantemente nella sua validità, ha un
presupposto fondamentale: confrontarsi con le emozioni intense e profonde
che il cancro ha determinato, legate al senso di provvisorietà, alla
paura di soffrire e di morire, dà la possibilità di ridimensionarle, di ridurre
la sofferenza emotiva e di guardare all’evento come un’opportunità per
riequilibrare la propria vita, per riordinarne le priorità e per trovare un più
autentico senso di sé e dei propri affetti. E tutto questo indipendentemente
dalla malattia e dalle condizioni fisiche del momento.
Il gruppo
“La vita umana si è sempre svolta nei gruppi. Condividere costituisce un
elemento essenziale dell’esperienza…” (Foulkes)
Il gruppo racchiude in sé una grande potenzialità di cura.
Abbiamo sperimentato tutti come far parte di un gruppo possa aiutare ad
attraversare momenti evolutivi cruciali, favorendo il rispecchiamento e la
condivisione e facendo sentire accettati e sostenuti nell’affrontare cambiamenti
anche importanti nella propria vita.
Ancor più lo diventa per chi è costretto a confrontarsi con una malattia
ad esito incerto della quale, fino a non molto tempo fa, era impossibile
parlare agli altri e persino parlarne a sé stessi.
Quando non si pensava che affrontare con consapevolezza gli aspetti cruciali
e dolorosi di una malattia come il cancro e con l’idea di poter morire,
potesse rappresentare, paradossalmente, una spinta positiva verso il vivere.
Quello che nel gruppo si sperimenta è, prima di tutto, “l’essere non più
soli”. Presto si scopre che le emozioni che tanto spaventano come la paura,
la rabbia, il rifiuto, il senso di sconforto e di fallimento, sono comuni
ad altri e come diventi possibile, in un clima rassicurante dove si parla lo
stesso linguaggio, riconoscere, legittimare e trasformare queste emozioni,
senza sentirsene paralizzati.
Il gruppo diventa il luogo dove le angosce e i pensieri più dolorosi possono
essere espressi ed affrontati; dove poter parlare apertamente di tutto ciò
che preoccupa, anziché impegnare una quantità enorme di energie con lo
scopo di reprimere questi sentimenti.
Ed è anche un luogo dove è possibile potersi confrontare con altre modalità di
reazione alla malattia per poter in qualche modo, “apprendere” nuovi pensieri.
Il sostegno psicologico in Attive
Il lavoro di sostegno psicologico, ruota attorno a tre gruppi, chiamati simbolicamente
“Riprogettiamo l’Esistenza”, “Decido di Vivere”, “La Terapia
degli Affetti”. Abbiamo scelto di strutturarli, fin dall’inizio, non come
gruppi di “auto-aiuto” che hanno altre finalità e procedure, ma costruendo
una metodologia originale, appositamente creata per dare risposta ai bisogni
emotivi dei pazienti.
Questi gruppi sono consequenziali tra loro, hanno una durata di otto incontri
i primi e di venti incontri l’ultimo. Vi partecipano donne (ma non è esclusa
la possibilità di inserire anche uomini o di comporre il gruppo solo di questi)
di differenti età, condizione fisica, culturale e sociale che hanno avuto
un qualsiasi tipo di tumore.
Possono parteciparvi dal momento della diagnosi, durante e dopo le terapie
oncologiche, anche a distanza di anni.
Abbiamo scelto di comporre i gruppi in maniera eterogenea per diagnosi
e situazione clinica in quanto si è visto negli anni, che il vantaggio di trovarsi
con chi vive una ripetizione di malattia o una situazione fisica molto
difficile, è in realtà maggiore dello svantaggio che potrebbe derivare dal
confrontarsi con problematiche diverse dalla propria. Questo perché in
una situazione “protetta” si possono affrontare concretamente i fantasmi
delle proprie paure, capire come si può essere sostenuti e come non si è
lasciati soli.
La conduzione del gruppo è affidata a uno psicologo clinico il cui compito
non è quello di spingere verso trasformazioni profonde, ma quello
di controllare l’evoluzione del clima affettivo e di creare la “cultura del
gruppo”: trasmettere cioè la consapevolezza che, qualsiasi pensiero e
sentimento può essere espresso e accolto.
A fianco del conduttore è presente una fiduciaria (ex paziente appositamente
formata per lavorare a fianco degli specialisti dopo aver fatto la sua
personale esperienza nei gruppi) che rappresenta l’evidenza di chi vive
dopo la malattia, magari meglio di prima, e che diventa così uno stimolo
forte per rispecchiarsi in una identità positiva.
L’atmosfera di accettazione e senza giudizio che si ha cura di mantenere
anche tra i partecipanti, è la base indispensabile per riuscire a spostare
l’attenzione da un livello che inizialmente riguarda quasi esclusivamente
gli aspetti della malattia, ad un livello più profondo di vissuto personale.
“Riprogettiamo l’Esistenza”
È la prima tappa del percorso.
L’obiettivo, all’interno di questo gruppo, è quello di offrire un contenitore
dove poter esprimere il più liberamente possibile, in un linguaggio condiviso,
emozioni e vissuti legati all’esperienza della malattia e dove poter
parlare liberamente della paura della sofferenza e della morte.
Molti, non solo i pazienti, credono che avere il controllo sulle emozioni
possa influenzare il decorso della stessa malattia, e che rimanere “forti” e
non pensare al peggio, aiuti a non essere sopraffatti dalla paura. Sappiamo
che non è così, perchè l’energia spesa per reprimere le emozioni negative
che invece, a dispetto di ciò, premono più forte che mai, produce una
sofferenza emotiva ancora più grande, facendo sentire ancora più soli.
La lettura di un testo, appositamente costruito, avvia un cammino a ritroso
verso i primi momenti dell’esperienza, e introduce la consapevolezza di
poter riuscire ad affrontare gli aspetti più cruciali, che l’incontro con il
cancro ha fatto emergere, legati al senso della propria esistenza.
Ci si avvicina gradualmente ai temi della sofferenza e della morte, dell’insicurezza
di come affrontare il futuro, scoprendo che sono queste le paure
che influenzano negativamente la capacità di vivere anche il quotidiano.
Facendo emergere ciò che prima ognuno sentiva, ma non riusciva ad
esprimere, l’argomento della morte e della paura del domani, diventano
qualcosa di più tollerabile e gestibile e il futuro assume un significato diverso;
così come comincia ad assumere un significato diverso la speranza.
Speranza innanzitutto di poter guarire ma anche di riuscire ad affrontare
e superare le difficoltà senza farsi paralizzare dalla paura, speranza di
poter dare un significato nuovo alla vita, speranza di poter vivere meglio e
forse… anche di più.
Più si accetta il confronto aperto con la sofferenza emotiva legata a questa
esperienza più diventa possibile spostare l’attenzione dalla malattia,
distaccarsi da essa, affrontare altri aspetti della propria esistenza e dare
un significato più accettabile a quanto è successo, considerandolo non più
come una catastrofe, ma come una opportunità per dare un colore nuovo
alla vita.
Gli incontri sono intensi, a volte dolorosi, a volte divertenti e, nonostante
il lavoro non sia sempre in discesa, alla fine l’ansia, la negazione e la
depressione si attenuano.
“Decido di Vivere”
È la seconda tappa del percorso.
Dopo aver elaborato, nel gruppo precedente, la paura della sofferenza
e della morte, si è ora guidati da un testo che si propone di affrontare il
tema del cambiamento. Si cercano nuove modalità di pensiero e un nuovo
modo di interpretare l’esperienza della malattia.
Nuove modalità che possano aiutare a convogliare le energie nella vita e
verso sé stessi, al di là di quanto è accaduto o proprio perché è accaduto.
Raccontandosi, vengono attraversati i momenti più significativi della propria
vita, riconoscendo il modo in cui si sono affrontati, con la consapevolezza,
spesso nuova, che gli aspetti positivi di sé non si sono persi solo
perché ci si è ammalati.
Gradualmente si diventa sempre più partecipi degli eventi, anche quelli
più difficili e diventa necessario intraprendere la strada del cambiamento,
assolutamente unico ed individuale, che la malattia ha indicato.
Più aumenta la capacità di guardare in un modo nuovo agli eventi, più si
allontanano i fantasmi legati all’idea della malattia e della morte e si riesce
a dare voce a quelle parti di sé alle quali, per vari motivi, si era dovuto
rinunciare.
Prende corpo il desiderio di fare chiarezza e di ristabilire le priorità dei
valori che, alla luce della sofferenza, sono cambiati.
Indipendentemente da ciò che potrebbe accadere domani, si trovano le
risorse per valorizzare l’oggi e aprire una prospettiva nuova all’esistenza.
“La Terapia degli affetti”
“L’anima umana è pronta ad angosciarsi di fronte al male, ma ha sempre
in sé anche le risorse che riescono a combatterlo” (F. Fornari)
È la terza tappa del percorso.
Il tema focale non è più la malattia, ma la necessità di riorganizzare, in
modo graduale e pacifico, le emozioni già emerse ed accolte nei gruppi
precedenti.
La tecnica di conduzione è molto orientata a favorire un continuo scambio
tra ordine del giorno e ordine delle notte, tra la descrizione dei fatti e delle
esperienze e la loro lettura in chiave affettiva profonda.
L’infelicità, l’intrappolamento e la crisi, così come la felicità, la libertà
e la crescita trovano, in questo nuovo scenario, un senso più originario.
Riappacificarsi con il proprio Sé, utilizzare le risorse affettive in modo
nuovo, saper desiderare anche altro rispetto a ciò che si è sempre, talvolta
inutilmente, voluto, sono obiettivi possibili perché nel copione degli
affetti vi sono risorse pronte all’uso, soprattutto se li si può svincolare da
blocchi che, per questioni evolutive o traumatiche, le tenevano imprigionate.
I principali benefici di questo articolato percorso sono:
• L’uscita dall’isolamento e dalla solitudine;
• L’opportunità di esprimere emozioni, pensieri e paure;
• Il rafforzamento dell’autostima, dell’assertività e dell’autonomia;
• La diminuzione della depressione e della fragilità emotiva;
• Maggiore energia per affrontare i cambiamenti derivati dall’esperienza
traumatica della malattia;
• Maggiore capacità di affrontare condizioni fisiche difficili;
• La possibilità di ricostruire una immagine nuova e integrata di sé;
• La riduzione della dipendenza familiare, sanitaria, sociale;
• La consapevolezza di poter contribuire così al proprio processo di
cura, di guarigione e, comunque, a un significativo miglioramento
esistenziale.
Le parole delle donne
Da alcune delle parole espresse e raccolte durante il lavoro nei gruppi, si
può ancor meglio comprendere il percorso di adattamento all’evento malattia.
Come solamente l’accettazione e l’elaborazione di questa esperienza
e di tutte le sue dolorose implicazioni, porti al suo superamento, fino
a rendere possibile rinnovare il significato del vivere al di là del tempo
riservato ad ognuno.
“Il cancro irrompe nella vita come un uragano, vanno in frantumi i progetti,
le certezze, non ha più senso la quotidianità, non sai più chi sei e
chi sarai…”
“Perché proprio a me? Questo pensiero mi sveglia di notte e mi trapassa
il cuore come un pugnale. E ogni volta è come fosse la prima volta! Che
dolore e che paura.”
“Affiorano brani dolorosi di vita vissuta, rimasti dentro, allacciati al tempo
passato. Guardo indietro con rimorsi e con rimpianti: e il futuro?”
“Domani, ecco che inesorabilmente arriverà domani. Sarà il giorno della
chemioterapia, quella che mi riporta al dolore, alla rabbia per quanto è
successo, alle lacrime che ricompaiono sempre ogni volta che il pensiero
si ferma lì.”
“Vorrei evadere un po’ dal dolore, ascoltare solo me stessa, camminare in
un campo pieno di fiori del quale non si vede l’orizzonte.”
“Penso a cose mai godute, a sentimenti mai espressi. Non trovo più niente
a posto, provo un senso di perdita, di vuoto, di impotenza”.
“Mi trovo come davanti a un bivio e non so se vincerà la malattia o la
vita. Sono tentata di fermarmi ad attendere con rassegnazione gli eventi,
ma vorrei poter trovare la forza di andare incontro a me stessa e tuffarmi
nella vita.”
“Nel buio mi sembra di scorgere un piccolo spiraglio di luce: gli vado
incontro, determinata a trovarlo e spero che si possa ingrandire”.
“Non è un’altra ferita, è l’ultima, quella che ha portato in superficie tutte
le altre, quelle interne, che ora non puoi più ignorare. E se continui a
farlo allora davvero muori.
Per il resto, stai tranquilla, fidati! È un’opportunità.”
“Non permetto più che la paura del domani mi impedisca di essere me
stessa oggi. Mi sento viva, anzi rinata e questo mi fa bene per oggi e per
domani. Sto imparando a non lasciar scorrere nel vuoto il tempo e ad
aprire il cuore a tutto ciò che mi circonda.”
“Il tempo che mi è dato voglio utilizzarlo al meglio, voglio concedermi
di vivere le emozioni, di arricchirlo. Non voglio più trascurarlo come un
sacco vuoto.”
“Coraggio, ore di paura verranno ancora, ma voglio andare oltre, cercare
sempre una parte di me stessa che mi aiuti a trovare la luce.
Non lotto più contro la paura, mi lascio attraversare e poi… se ne va”.
“Avevo già deciso di vivere, ma quale vita? Correvo il rischio di vivere
quella di prima. Ho imparato a riprogettare la mia esistenza: ora ne sono
più consapevole.”
“Avevo già troppi problemi, non poteva cadermi in testa anche questa tegola.
Non riuscivo a reagire, non mi interessava più nulla, ho toccato veramente
il fondo, fisicamente e psicologicamente. Poi ho trovato ascolto,
condivisione, persone con le quali potevo piangere, ridere, amare, odiare,
parlare o stare zitta.”
“Ho soprattutto imparato ad accettare di aver avuto un cancro. Da quel
momento mi sono resa conto di essere giunta a un bivio: mi lascio morire
o decido di vivere? Insomma cosa faccio della mia vita? Il bisogno di
chiarezza mi ha fatto prendere la direzione giusta.”
“Ho guardato nel profondo me stessa e vi ho visto scritta la mia vita; nel
rileggerla ho trovato ciò che di me non conoscevo: ho accettato quelle
parti nascoste sentendole come una nuova risorsa.”
“Ho riscoperto il valore della mia esistenza. Non resto più inerme ad
aspettare la morte ma è come se chiedessi a lei di aspettare me.”
“Ora posso pronunciare e scrivere la parola cancro senza più sentirmi
male; sono guarita dalla paura.”
“La morte è divenuta un pensiero familiare, immaginata come un tempo
da vivere e, se possibile, da preparare. Un’idea forte che mi spinge a
vivere meglio di prima, a ridimensionare i problemi.”
“Sento di esistere in un lungo e continuo presente. Una dimensione quieta,
serena, che mi aiuta a capire che la morte fa parte della vita.”
“Una forza nuova è dentro di me: come una magia che trasforma le cose, le
rende belle e mi porta ad apprezzare le piccole cose che prima trascuravo.”
Dott.ssa Antonella Varetto.
S.C.D.U. Psico-oncologia, A.S.O. Molinette, Torino
Le psicoterapie di gruppo in oncologia
Il metodo di Attivecomeprima deve essere inquadrato nell’insieme degli
interventi psicologici a disposizione delle pazienti ammalate di cancro.
Non risulta oggi più possibile far riferimento a una sola teoria psicologica,
soprattutto in funzione dell’elaborazione di un programma terapeutico che
deve tener conto di diverse variabili: le esperienze individuali del paziente,
le modalità soggettive di reazione nei diversi stadi della malattia,
l’ambito nel quale viene realizzato il programma terapeutico, gli operatori
che lo realizzano.
Le psicoterapie in ambito oncologico sono suddivise in categorie in base
alla tecnica utilizzata ed alla teoria alla quale si riferiscono:inoltre possono
essere applicate individualmente o in gruppo. Ed è proprio nell’ambito
delle terapie che vedono il gruppo come fattore terapeutico, che si sviluppa
il metodo di Attivecomeprima; metodo che è stato costruito sull’ascolto
dei bisogni delle migliaia di pazienti incontrati e che presenta delle
differenze, anche sostanziali, da altri in uso in ambito oncologico, dei
quali ora farò un excursus teorico.
Per gruppo s’intende un insieme di persone di numero maggiore a due che
interagiscono tra loro. Il valore terapeutico dell’appartenere ad un gruppo
risiede nella possibilità, da parte dei pazienti, di sviluppare modelli nuovi
e più funzionali di socializzazione; inoltre il gruppo funziona da “specchio”
incentivando il comportamento imitativo e, sviluppando la tendenza
coesiva, fornisce la possibilità di condividere la richiesta e l’offerta di
cure, rompendo l’isolamento generato dalla malattia (Foulkes, 1967) e
negli ultimi anni è stato sempre più utilizzato in oncologia.
Gli obiettivi specifici delle terapie di gruppo in oncologia sono:
• uscire dall’isolamento: condividere esperienze ed emozioni con altri
malati all’interno del gruppo aumenta il senso di appartenenza e contrasta
la solitudine che i pazienti spesso avvertono, soprattutto dopo la
diagnosi;
• promuovere le risorse personali sentendosi utili per gli altri: ciò permette
di riacquistare fiducia nelle proprie capacità e percepirsi meno
impotenti;
• accrescere l’informazione: attraverso la condivisione dei problemi,
i partecipanti acquisiscono informazioni sulla loro condizione senza
percepirla “diversa”, in un clima di sostegno reciproco;
• migliorare le abilità di reazione alla malattia confrontandosi con le
modalità di reazione degli altri partecipanti;
• aumentare la capacità di comunicazione ed espressione emozionale sia
nel “qui e ora” del gruppo che nella realtà esterna. (Grassi et al, 2003).
Migliorano pertanto le relazioni sia con i medici che con i familiari
(Blake-Mortimer et al, 1999).
La psicoterapia di gruppo aiuta la persona a sentire, pensare e comportarsi
in modo nuovo rispetto al passato, utilizzando le relazioni fra pazienti e
fra pazienti e conduttore che si creano in quel momento all’interno del
gruppo. Il conduttore in genere è uno psicologo o uno psichiatra con una
formazione in psicoterapia di gruppo ed esperienza in oncologia. Solitamente
ha un colloquio individuale preliminare con la persona che intende
partecipare al gruppo per individuare se questo tipo di intervento è il
più adatto per la sua difficoltà. I gruppi infatti possono essere omogenei
per tipo di patologia oncologica, oppure per fase del tumore. Il numero
degli incontri può essere stabilito dal conduttore sin dall’inizio, oppure il
gruppo può essere aperto: i partecipanti cioè possono entrare o uscire dal
gruppo durante la sua vita. La scelta della durata degli incontri è stabilita
dal conduttore e può dipendere dalla tipologia dei partecipanti: ad esem21
pio i pazienti con malattia in fase avanzata beneficiano di trattamenti di
gruppo senza un tempo prestabilito, non strutturati e fondati su un’interazione
tra i membri (Costantini, 2002).
Il tema degli incontri può essere proposto dal conduttore; oppure può
essere flessibile e in questo caso sono i partecipanti a proporlo.
Come per la psicoterapia individuale, anche in quella di gruppo sono
utilizzati differenti orientamenti. I più diffusi e studiati nella popolazione
oncologica sono l’orientamento:
• supportivo – espressivo: è focalizzato sull’espressione dell’emozioni,
il sostegno fra i partecipanti al gruppo e l’approfondimento delle
tematiche esistenziali che l’evento malattia scatena (Spiegel e Classen,
2003);
• cognitivo – comportamentale: è l’approccio maggiormente studiato,
poiché si avvale di tecniche adatte per affrontare sintomi quali lo
stress, l’ansia e il dolore. Utilizza tecniche che permettono di modificare
i pensieri che sottostanno al comportamento. Il conduttore può
invitare i partecipanti a svolgere dei compiti fuori dal gruppo mirati ad
acquisire o rafforzare nuovi comportamenti. Alcune tecniche specifiche
utilizzate all’interno dei gruppi condotti con questo orientamento sono
il training autogeno e le visualizzazioni guidate (vedi precedentemente
nel capitolo);
• psicoeducativo: si basa su programmi di informazione che, con ausili
didattici (depliant, audiovisivi), incontri di discussione, incontri per
l’insegnamento di tecniche di gestione dello stress favoriscono la
conoscenza del paziente e dei familiari dei percorsi terapeutici, delle
problematiche cliniche, sociali ed emozionali correlate all’evento cancro,
migliorando il senso di controllo sul percorso di malattia (Fawzy
e Fawzy, 1994). Una importante applicazione degli interventi psicoeducativi
si ha nell’ambito dei programmi di screening genetico (Mc22
Daniel, 2005). In questo tipo di gruppo le interazioni fra i partecipanti
sono limitate ed il conduttore ha la funzione di facilitare l’apprendimento.
Molto diffusi in oncologia sono anche i gruppi di auto-aiuto che costituiscono
un intervento psicologico e non psicoterapeutico; forniscono
pertanto sostegno ai partecipanti, senza utilizzare tecniche specifiche,
ma sfruttando la forza del gruppo. Sono costituiti da pazienti uniformi
per patologia, o che presentano una stessa difficoltà e, occasionalmente,
si avvalgono della presenza di esperti esterni, a differenza dei gruppi di
psicoterapia nei quali il conduttore è parte integrante del processo di cambiamento.
La loro caratteristica è l’aiuto reciproco rispetto a un problema
già presente. I membri stabiliscono una relazione tra pari, ugualmente
coinvolti nella richiesta e nell’offerta di cure e di sostegno reciproco.
Agli incontri di gruppo possono essere associati colloqui con uno psicoterapeuta
o con altri specialisti.
Infine negli ultimi anni si sono affermati anche i gruppi di pazienti a scopo
terapeutico organizzati intorno ad attività quali la musica, la recitazione
e il ballo (Costantini e Grassi, 2004).
Nell’esperienza realizzata da alcuni anni a Torino, presso il Centro Oncoematologico,
attraverso l’associazione RAVI e con il metodo di Attivecomeprima,
si è cercato di realizzare praticamente quanto il far parte di un
gruppo possa aiutare una persona ammalata ad attraversare un momento
così difficile della vita. Alle donne dell’associazione e attraverso l’associazione
sono state offerti gruppi più strutturati secondo il metodo descritto
di Attivecomeprima, o gruppi focalizzati su tecniche di rilassamento,
in particolar modo training autogeno e, ove necessario, nel tempo, un
supporto individuale. L’utilità del gruppo viene continuamente rinnovata
nella partecipazione attiva alla vita dell’associazione e, se anche questo
non può dirsi atto psicoterapeutico in senso stretto, il vissuto di appartenenza
e la condividsione di obiettivi ed appuntamenti di volta in volta
diversi o che si rinnovano di anno in anno (dalla sfilata di moda alla conferenza
su argomenti di interesse comune) costutuisce quella base di forza
sulla quale le donne si appoggiano e che ritrovano anche nei momenti più
difficili del loro percorso.
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Una visione che può dare senso alla vita, alle sofferenze, e suscitare di nuovo la fede...
La reincarnazione e il karma
Per l'anima non c'è mai nascita, né morte.
Esiste e non cessa mai di esistere.
È non nata, eterna, esiste sempre, non muore ed è originale.
Non muore quando il corpo muore.
Può sembrare che ciò che si pensa su ciò che succede dopo la morte non sia così importante, e che ciò che veramente conta sia solo come si vive qui e adesso. Ma che dire se le due cose fossero strettamente connesse? Che dire se ciò che si fa ora influisse in modo determinante sul futuro e le mie attività del passato avessero ora i loro effetti?
Con un'analisi approfondita, inoltre, si può osservare che lo stile di vita nelle diverse culture del mondo si può facilmente mettere in relazione al concetto che ciascuno ha della vita dopo la morte. Spesso è proprio questo che modella l'intera impostazione culturale.
Sebbene i particolari della trasmigrazione dell'anima, la reincarnazione, varino da religione a religione, le basi scientifiche di questo credo o i principi su cui si fonda, sono gli stessi.
In sostanza il concetto è che la forza vitale, o l'essenza che distingue un corpo vivente da uno morto, sopravvive alla morte del corpo; bisogna passare di corpo in corpo, proprio come in questa vita si passa dall'infanzia all'adolescenza e dall'adolescenza alla vecchiaia, fino a quando non si raggiunge la perfezione, vale a dire la relazione di puro amore per Dio, che rende coscienti della propria posizione originale.
Fino a che non saremo abbastanza puri e desiderosi di ricongiungerci a Dio, torneremo più e più volte a prendere nuovi corpi materiali al fine di purificare appunto la nostra coscienza da tutti i desideri di natura materiale.
La legge di causa ed effetto, conosciuta nella Letteratura Vedica come "legge del karma" e simboleggiata nella Bibbia dalla frase "ciò che semini raccoglierai", accompagna logicamente il concetto di reincarnazione.
Spesso confuso con una specie di punizione, il karma, propriamente compreso, è un sistema didattico dal quale si può trarre insegnamento; se si fanno le cose giuste, tutto andrà bene, mentre se si fanno cose sbagliate tutto andrà male; così è possibile imparare dai nostri errori.
Spesso l'apprendimento è sottile; quindi, anche se non ricordiamo gli errori commessi nelle vite precedenti, saremo guidati naturalmente verso il progresso, o il regresso, secondo i desideri e le attività del passato. Il fatto che non si possano ricordare le attività del passato non dimostra affatto che non esistano. D'altro canto chi ricorda le prime parole di questo articolo?
Gli scettici sostengono che la reincarnazione è la speranza di chi non riesce ad accettare la morte. Molti non desiderano però reincarnarsi, ma cercano di perfezionare le loro vite in vista di un obbiettivo al di là del mondo materiale.
Esistono anche parecchie ricerche che suggeriscono che la reincarnazione sia più di una speranza.
Ian Stevenson, dell'Università della Virginia, ha raccolto numerose testimonianze secondo le quali molte persone sostengono di ricordare vite precedenti. In molti casi bambini hanno dato indicazioni sufficienti ad identificare una famiglia precedente. L'ipotesi che queste persone possano davvero aver trovato la famiglia giusta è, alcune volte, sostenuta da segni particolari congeniti, o caratteristiche che erano presenti nel corpo precedente.
Anche nel mondo della scienza, Einstein, Stromberg, Edison, ecc..., erano sostenitori della dottrina della reincarnazione, e i primi filosofi dell'antica Grecia ne erano ardenti sostenitori e la spiegavano in termini di ragione e di logica.
Socrate, Platone e Pitagora non sono che pochi tra i grandi pensatori che sostennero la verità della reincarnazione. La scienza considera molto importanti le relazioni di "causa" nel mondo fenomenico. Ogni evento fenomenico ha la sua causa, ed ogni causa avrà il suo effetto; questa è la terza legge di Newton.
Le scienze spirituali, specialmente i Veda, allargano questa concezione anche alla vita morale e spirituale dell'uomo. Anche le religioni occidentali lo sostengono. "Ciò che uno semina raccoglie"; oppure "Chi di spada ferisce, di spada perisce", ecc.
Le conseguenze delle scelte passate condizionano la vita presente, come un giocatore si trova la partita vinta in mano, ma è comunque libero di giocarla in diversi modi. Ciò significa che il viaggio dell'anima da un corpo ad un altro è guidato dalle nostre scelte.
*La reincarnazione e le religioni del mondo*
Proprio come gli Hindu e i Buddisti accettano la dottrina della reincarnazione, così tutte le tradizioni religiose l'hanno accettata in tempi diversi.
Gli antichi Egizi e i Greci la accettavano come un fatto della vita, mentre i Druidi arrivavano a prestare denaro pensando di riaverlo in una vita futura.
Gli Indiani d'America, gli aborigeni australiani e molte tribù africane includono la reincarnazione nei loro credo.
L'idea, pienamente accettata da Ebrei ed Esseni, era largamente diffusa ai tempi di Gesù, e ha continuato ad essere popolare tra gli Ebrei europei fino alla fine del Medioevo, tra gli Ebrei Cassidici e mistici, presso i quali è conosciuta come "gilgul" ed è spiegata abbastanza in profondità in varie opere cabalistiche.
I Drusi, di origine musulmana, non solo credono nella reincarnazione, ma considerano le memorie delle vite passate una cosa normale, anche se fino a poco tempo fa era loro vietato di parlarne al di fuori del loro popolo.
Il concetto di reincarnazione è decisamente una componente anche del primo Cristianesimo; ciò nonostante, molti cristiani moderni tendono a considerare l'idea come una buffa superstizione.
I padri della Chiesa Cristiana, comunque, testimoniano che le reincarnazione era parte del pensiero cristiano primitivo.
Per esempio, nel terzo sec. d.C., Origene, che era considerato secondo solo ad Agostino per la sua influenza durante i primi tempi della Chiesa, scrisse nella sua opera "Sui Principi": "A causa di una certa inclinazione verso il male di alcune anime, esse perdono le ali e prendono corpo, prima sotto forma di uomini; quindi, a causa dell'associazione con la passione irrazionale, dopo il periodo assegnato con la forma umana, essi si trasformano in bestie, forma dalla quale passano poi alla forma di piante. Restano in queste diverse forme di corpi fino a quando non saranno degni di essere riportati alla loro posizione spirituale". (NDR: in effetti, questa non è l'esatta "formula" reincarnativa. Nessuno torna "indietro" - secondo Tradizione - in esperienze superate. L'uomo evolverà sempre, una volta entrato nel regno umano, e non tornerà ad abitare in regni precedenti a questo)
Con il tempo, quando la teologia cristiana iniziò a cambiare, l'idea della reincarnazione divenne sinonimo di eresia, e nel 553 d.C., nel secondo Concilio di Costantinopoli, l'Imperatore Giustiniano proclamò il suo anatema contro Origene:
"Se qualcuno dovesse proclamare che l'anima trasmigra da un corpo ad un altro che sia maledetto".
Questo pose fine ad ogni disquisizione seria sulla trasmigrazione dell'anima nella cristianità organizzata.
La reincarnazione e il karma
Per l'anima non c'è mai nascita, né morte.
Esiste e non cessa mai di esistere.
È non nata, eterna, esiste sempre, non muore ed è originale.
Non muore quando il corpo muore.
Può sembrare che ciò che si pensa su ciò che succede dopo la morte non sia così importante, e che ciò che veramente conta sia solo come si vive qui e adesso. Ma che dire se le due cose fossero strettamente connesse? Che dire se ciò che si fa ora influisse in modo determinante sul futuro e le mie attività del passato avessero ora i loro effetti?
Con un'analisi approfondita, inoltre, si può osservare che lo stile di vita nelle diverse culture del mondo si può facilmente mettere in relazione al concetto che ciascuno ha della vita dopo la morte. Spesso è proprio questo che modella l'intera impostazione culturale.
Sebbene i particolari della trasmigrazione dell'anima, la reincarnazione, varino da religione a religione, le basi scientifiche di questo credo o i principi su cui si fonda, sono gli stessi.
In sostanza il concetto è che la forza vitale, o l'essenza che distingue un corpo vivente da uno morto, sopravvive alla morte del corpo; bisogna passare di corpo in corpo, proprio come in questa vita si passa dall'infanzia all'adolescenza e dall'adolescenza alla vecchiaia, fino a quando non si raggiunge la perfezione, vale a dire la relazione di puro amore per Dio, che rende coscienti della propria posizione originale.
Fino a che non saremo abbastanza puri e desiderosi di ricongiungerci a Dio, torneremo più e più volte a prendere nuovi corpi materiali al fine di purificare appunto la nostra coscienza da tutti i desideri di natura materiale.
La legge di causa ed effetto, conosciuta nella Letteratura Vedica come "legge del karma" e simboleggiata nella Bibbia dalla frase "ciò che semini raccoglierai", accompagna logicamente il concetto di reincarnazione.
Spesso confuso con una specie di punizione, il karma, propriamente compreso, è un sistema didattico dal quale si può trarre insegnamento; se si fanno le cose giuste, tutto andrà bene, mentre se si fanno cose sbagliate tutto andrà male; così è possibile imparare dai nostri errori.
Spesso l'apprendimento è sottile; quindi, anche se non ricordiamo gli errori commessi nelle vite precedenti, saremo guidati naturalmente verso il progresso, o il regresso, secondo i desideri e le attività del passato. Il fatto che non si possano ricordare le attività del passato non dimostra affatto che non esistano. D'altro canto chi ricorda le prime parole di questo articolo?
Gli scettici sostengono che la reincarnazione è la speranza di chi non riesce ad accettare la morte. Molti non desiderano però reincarnarsi, ma cercano di perfezionare le loro vite in vista di un obbiettivo al di là del mondo materiale.
Esistono anche parecchie ricerche che suggeriscono che la reincarnazione sia più di una speranza.
Ian Stevenson, dell'Università della Virginia, ha raccolto numerose testimonianze secondo le quali molte persone sostengono di ricordare vite precedenti. In molti casi bambini hanno dato indicazioni sufficienti ad identificare una famiglia precedente. L'ipotesi che queste persone possano davvero aver trovato la famiglia giusta è, alcune volte, sostenuta da segni particolari congeniti, o caratteristiche che erano presenti nel corpo precedente.
Anche nel mondo della scienza, Einstein, Stromberg, Edison, ecc..., erano sostenitori della dottrina della reincarnazione, e i primi filosofi dell'antica Grecia ne erano ardenti sostenitori e la spiegavano in termini di ragione e di logica.
Socrate, Platone e Pitagora non sono che pochi tra i grandi pensatori che sostennero la verità della reincarnazione. La scienza considera molto importanti le relazioni di "causa" nel mondo fenomenico. Ogni evento fenomenico ha la sua causa, ed ogni causa avrà il suo effetto; questa è la terza legge di Newton.
Le scienze spirituali, specialmente i Veda, allargano questa concezione anche alla vita morale e spirituale dell'uomo. Anche le religioni occidentali lo sostengono. "Ciò che uno semina raccoglie"; oppure "Chi di spada ferisce, di spada perisce", ecc.
Le conseguenze delle scelte passate condizionano la vita presente, come un giocatore si trova la partita vinta in mano, ma è comunque libero di giocarla in diversi modi. Ciò significa che il viaggio dell'anima da un corpo ad un altro è guidato dalle nostre scelte.
*La reincarnazione e le religioni del mondo*
Proprio come gli Hindu e i Buddisti accettano la dottrina della reincarnazione, così tutte le tradizioni religiose l'hanno accettata in tempi diversi.
Gli antichi Egizi e i Greci la accettavano come un fatto della vita, mentre i Druidi arrivavano a prestare denaro pensando di riaverlo in una vita futura.
Gli Indiani d'America, gli aborigeni australiani e molte tribù africane includono la reincarnazione nei loro credo.
L'idea, pienamente accettata da Ebrei ed Esseni, era largamente diffusa ai tempi di Gesù, e ha continuato ad essere popolare tra gli Ebrei europei fino alla fine del Medioevo, tra gli Ebrei Cassidici e mistici, presso i quali è conosciuta come "gilgul" ed è spiegata abbastanza in profondità in varie opere cabalistiche.
I Drusi, di origine musulmana, non solo credono nella reincarnazione, ma considerano le memorie delle vite passate una cosa normale, anche se fino a poco tempo fa era loro vietato di parlarne al di fuori del loro popolo.
Il concetto di reincarnazione è decisamente una componente anche del primo Cristianesimo; ciò nonostante, molti cristiani moderni tendono a considerare l'idea come una buffa superstizione.
I padri della Chiesa Cristiana, comunque, testimoniano che le reincarnazione era parte del pensiero cristiano primitivo.
Per esempio, nel terzo sec. d.C., Origene, che era considerato secondo solo ad Agostino per la sua influenza durante i primi tempi della Chiesa, scrisse nella sua opera "Sui Principi": "A causa di una certa inclinazione verso il male di alcune anime, esse perdono le ali e prendono corpo, prima sotto forma di uomini; quindi, a causa dell'associazione con la passione irrazionale, dopo il periodo assegnato con la forma umana, essi si trasformano in bestie, forma dalla quale passano poi alla forma di piante. Restano in queste diverse forme di corpi fino a quando non saranno degni di essere riportati alla loro posizione spirituale". (NDR: in effetti, questa non è l'esatta "formula" reincarnativa. Nessuno torna "indietro" - secondo Tradizione - in esperienze superate. L'uomo evolverà sempre, una volta entrato nel regno umano, e non tornerà ad abitare in regni precedenti a questo)
Con il tempo, quando la teologia cristiana iniziò a cambiare, l'idea della reincarnazione divenne sinonimo di eresia, e nel 553 d.C., nel secondo Concilio di Costantinopoli, l'Imperatore Giustiniano proclamò il suo anatema contro Origene:
"Se qualcuno dovesse proclamare che l'anima trasmigra da un corpo ad un altro che sia maledetto".
Questo pose fine ad ogni disquisizione seria sulla trasmigrazione dell'anima nella cristianità organizzata.
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- Iscritto il: sab 25 mag 2013, 3:36
La fede ti permette di riconsiderare le cose,un'andatura nuova che rivaluta in toto la propria vita fisicamente,psicologicamente e spiritualmente...
Volevo sottolineare la parte fisica che riguarda l'alimentazione dove di solito non si dà molta importanza,ma per la mia esperienza personale ritengo fondamentale, si preferisce dare più facilmente la colpa alle sostanze artificiali o all'inquinamento o ad altro,senza considerare che ci sono alimenti che col tempo il nostro organismo non tollera più, scatenando reazioni autoimmuni che possono scatenare delle patologie importanti...
La cosa migliore sarebbe rivalutare le proprie abitudini alimentari, saper individuare se con gli alimenti, introduciamo delle sostanze che generano tossine e possono provocare infiammazioni anche croniche,che possono dare vita a dei cambiamenti nel nostro organismo insospettati...
Il nostro corpo ci parla con dei segnali, che se sottovalutati,possono crearci dei seri problemi e condurci ad un'esistenza difficile...
Non si dice sempre:'prima la salute'? Ma io aggiungo di procedere per gradi...prima Dio e contemporaneamente la salute...
Volevo sottolineare la parte fisica che riguarda l'alimentazione dove di solito non si dà molta importanza,ma per la mia esperienza personale ritengo fondamentale, si preferisce dare più facilmente la colpa alle sostanze artificiali o all'inquinamento o ad altro,senza considerare che ci sono alimenti che col tempo il nostro organismo non tollera più, scatenando reazioni autoimmuni che possono scatenare delle patologie importanti...
La cosa migliore sarebbe rivalutare le proprie abitudini alimentari, saper individuare se con gli alimenti, introduciamo delle sostanze che generano tossine e possono provocare infiammazioni anche croniche,che possono dare vita a dei cambiamenti nel nostro organismo insospettati...
Il nostro corpo ci parla con dei segnali, che se sottovalutati,possono crearci dei seri problemi e condurci ad un'esistenza difficile...
Non si dice sempre:'prima la salute'? Ma io aggiungo di procedere per gradi...prima Dio e contemporaneamente la salute...
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Nel mio precedente post:'ho bisogno di qualcuno che mi capisca'ci sono info per seguire un percorso di alimentazione.
La natura ha delle capacità incredibili di recupero e quindi perché non tentare anche questa strada che favorisce le terapie mediche, ma sopratutto evita la cosa peggiore,la
recidiva,si proprio questa,perché se non si conoscono le cause che hanno fatto insorgere il tumore,questo facilmente si ripresenterà, purtroppo,magari in altre parti del corpo,non considerate questa visione pessimista,ma una cruda realtà...
Tentare non è deleterio,e i riscontri lo confermano,specialmente quando si prende in tempo il tumore,quando non è una recidiva,certo, anche l'alimentazione sarà diversa per il tempo rimanente della propria vita,provare per un periodo (ci sono gli esami che confermano l'eventuale successo e l'andamento positivo),certo non farà male,io posso testimoniare che le patologie migliorano e perché no anche il cancro,che è una patologia tra le più gravi che esistono.Grazie per l'attenzione
La natura ha delle capacità incredibili di recupero e quindi perché non tentare anche questa strada che favorisce le terapie mediche, ma sopratutto evita la cosa peggiore,la
recidiva,si proprio questa,perché se non si conoscono le cause che hanno fatto insorgere il tumore,questo facilmente si ripresenterà, purtroppo,magari in altre parti del corpo,non considerate questa visione pessimista,ma una cruda realtà...
Tentare non è deleterio,e i riscontri lo confermano,specialmente quando si prende in tempo il tumore,quando non è una recidiva,certo, anche l'alimentazione sarà diversa per il tempo rimanente della propria vita,provare per un periodo (ci sono gli esami che confermano l'eventuale successo e l'andamento positivo),certo non farà male,io posso testimoniare che le patologie migliorano e perché no anche il cancro,che è una patologia tra le più gravi che esistono.Grazie per l'attenzione
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Il glutine nella pasta e nel pane può essere nocivo anche se non si è celiaci?
Infiammazione da cibo & Sensibilità al glutine
INFIAMMAZIONE DA CIBO
La medicina moderna si confronta quotidianamente con fenomeni di infiammazione a bassa intensità che spesso durano nel tempo e che per anni sono stati scarsamente compresi. Il sospetto che l’alimentazione potesse avere un ruolo importante in questa situazione è sempre stato molto forte, la realtà clinica e la ricerca hanno già consentito di capire che qualsiasi cibo può provocare in persone sensibilizzate la produzione di citochine e sostanze infiammatorie che provocano tutta la sequenza di sintomi, malattie e disturbi messi in relazione con le cosiddette intolleranze alimentari.
Succede, spesso per qualche motivo, l’organismo diventa intollerante verso alcuni alimenti (per colpa dello stress che indebolisce il sistema immunitario? Del cibo industriale troppo ricco di conservanti e additivi? Dell’inquinamento che mette in circolazione sostanze allergizzanti? Dello squilibrio della flora batterica intestinale?) e quando li ingerisce il suo sistema immunitario si attiva e dà il via a una reazione infiammatoria
Questi disturbi possono riguardare l’intestino (gonfiori diarrea, sindrome del colon irritabile, gastrite), il sistema respiratorio (sinusiti, bronchiti, faringiti, infezioni ripetute, asma), la pelle (eczema, orticaria dermatiti, psoriasi), il sistema nervoso (mal di testa, difficoltà di concentrazione, sindrome da stanchezza cronica, insonnia), quello genito-urinario (cistiti, vaginiti, candidosi) e quello muscolare (dolori articolari e muscolari, crampi, artrite). È come se l’introduzione di un alimento verso il quale si è intolleranti si traducesse in un lento avvelenamento dell’organismo con sintomi difficili da interpretare. I latticini danno più frequentemente colite e cefalea, il frumento pure, ma anche problemi cutanei e sintomi respiratori (legati soprattutto ai derivati lievitati o fermentati).
E nell’obesità e sovrappeso, che ruolo hanno le intolleranze alimentari? Anche in questo caso è l’infiammazione a provocare insulino-resistenza delle cellule: queste ultime non riescono a utilizzare gli zuccheri, che si accumulano, quindi, sotto forma di grasso.
Un’ alterazione delle IgG, anticorpi prodotti dal sistema immunitario ci segnala l’avvenuto contatto con un particolare cibo che l’organismo considera estraneo. Importante, a questo punto, è l’identikit dei cibi che provocano infiammazione e strutturare una dieta dove recuperare l’«amicizia con i cibi», cioè la “tolleranza” verso gli alimenti, e ridurre l’effetto dell’infiammazione.
SENSIBILITÀ AL GLUTINE, E NON È CELIACHIA
Si chiama “gluten sensitivity”, sensibilità al glutine, ed ha poco a che vedere con la celiachia. Non esiste test per individuarla, i sintomi riferiti dai pazienti sono molto variabili, da meteorismo, diarrea, dolori addominali, emicrania, ad altri sintomi non addominali, come apatia e altro. Tutti sintomi che – secondo i pazienti – migliorano con una dieta aglutinata.
La recente definizione della “Gluten sensitivity” (una intolleranza al glutine che provoca gli stessi sintomi della celiachia senza esserla e che riguarda anche il 20% della popolazione sana) ha gettato altre luci sui fenomeni infiammatori da cibo. La reazione al glutine (spesso indistinguibile sul piano clinico da quella della celiachia) è dovuta solo alla attivazione delle reazioni infiammatorie difensive dell’organismo. In termini scientifici si parla della attivazione dei recettori che svolgono nell’organismo la funzione di segnalare un pericolo (in quel caso il superamento di un livello di soglia dell’assunzione alimentare ripetuta) e manifestano la reazione infiammatoria come fosse una “segnale di allarme” perché si cambi il comportamento alimentare. Se poi l’avvertimento non è ascoltato, le conseguenze possono essere anche gravi.Almeno due lavori, hanno studiato e definito con precisione questa differenza.
Il primo lavoro, pubblicato da un gruppo di ricerca italiano (Sapone A et al, BMC Med. 2011;) descrive la diversità tra le due condizioni e segnala il fatto che mentre la celiachia è legata allo sviluppo di autoimmunità collegata alla immunità adattativa, nella gluten sensitivity si realizza l’attivazione della immunità innata in particolare con l’attivazione dei Recettori, deputati a sviluppare una risposta infiammatoria immediata e che giustificano l’infiammazione a bassa intensità sempre presente in queste condizioni.
Il secondo lavoro, pubblicato sull’American Journal of Gastroenterology. Il ricercatori identificano il colon irritabile da glutine senza espressione di celiachia, nonostante la presenza di una parziale presenza di DQ2 o di DQ8.
Interessante la frase di chiusura degli autori australiani: “Non-celiac gluten intolerance may exist”. L’intolleranza al glutine esiste, senza essere celiachia.
Infiammazione da cibo & Sensibilità al glutine
INFIAMMAZIONE DA CIBO
La medicina moderna si confronta quotidianamente con fenomeni di infiammazione a bassa intensità che spesso durano nel tempo e che per anni sono stati scarsamente compresi. Il sospetto che l’alimentazione potesse avere un ruolo importante in questa situazione è sempre stato molto forte, la realtà clinica e la ricerca hanno già consentito di capire che qualsiasi cibo può provocare in persone sensibilizzate la produzione di citochine e sostanze infiammatorie che provocano tutta la sequenza di sintomi, malattie e disturbi messi in relazione con le cosiddette intolleranze alimentari.
Succede, spesso per qualche motivo, l’organismo diventa intollerante verso alcuni alimenti (per colpa dello stress che indebolisce il sistema immunitario? Del cibo industriale troppo ricco di conservanti e additivi? Dell’inquinamento che mette in circolazione sostanze allergizzanti? Dello squilibrio della flora batterica intestinale?) e quando li ingerisce il suo sistema immunitario si attiva e dà il via a una reazione infiammatoria
Questi disturbi possono riguardare l’intestino (gonfiori diarrea, sindrome del colon irritabile, gastrite), il sistema respiratorio (sinusiti, bronchiti, faringiti, infezioni ripetute, asma), la pelle (eczema, orticaria dermatiti, psoriasi), il sistema nervoso (mal di testa, difficoltà di concentrazione, sindrome da stanchezza cronica, insonnia), quello genito-urinario (cistiti, vaginiti, candidosi) e quello muscolare (dolori articolari e muscolari, crampi, artrite). È come se l’introduzione di un alimento verso il quale si è intolleranti si traducesse in un lento avvelenamento dell’organismo con sintomi difficili da interpretare. I latticini danno più frequentemente colite e cefalea, il frumento pure, ma anche problemi cutanei e sintomi respiratori (legati soprattutto ai derivati lievitati o fermentati).
E nell’obesità e sovrappeso, che ruolo hanno le intolleranze alimentari? Anche in questo caso è l’infiammazione a provocare insulino-resistenza delle cellule: queste ultime non riescono a utilizzare gli zuccheri, che si accumulano, quindi, sotto forma di grasso.
Un’ alterazione delle IgG, anticorpi prodotti dal sistema immunitario ci segnala l’avvenuto contatto con un particolare cibo che l’organismo considera estraneo. Importante, a questo punto, è l’identikit dei cibi che provocano infiammazione e strutturare una dieta dove recuperare l’«amicizia con i cibi», cioè la “tolleranza” verso gli alimenti, e ridurre l’effetto dell’infiammazione.
SENSIBILITÀ AL GLUTINE, E NON È CELIACHIA
Si chiama “gluten sensitivity”, sensibilità al glutine, ed ha poco a che vedere con la celiachia. Non esiste test per individuarla, i sintomi riferiti dai pazienti sono molto variabili, da meteorismo, diarrea, dolori addominali, emicrania, ad altri sintomi non addominali, come apatia e altro. Tutti sintomi che – secondo i pazienti – migliorano con una dieta aglutinata.
La recente definizione della “Gluten sensitivity” (una intolleranza al glutine che provoca gli stessi sintomi della celiachia senza esserla e che riguarda anche il 20% della popolazione sana) ha gettato altre luci sui fenomeni infiammatori da cibo. La reazione al glutine (spesso indistinguibile sul piano clinico da quella della celiachia) è dovuta solo alla attivazione delle reazioni infiammatorie difensive dell’organismo. In termini scientifici si parla della attivazione dei recettori che svolgono nell’organismo la funzione di segnalare un pericolo (in quel caso il superamento di un livello di soglia dell’assunzione alimentare ripetuta) e manifestano la reazione infiammatoria come fosse una “segnale di allarme” perché si cambi il comportamento alimentare. Se poi l’avvertimento non è ascoltato, le conseguenze possono essere anche gravi.Almeno due lavori, hanno studiato e definito con precisione questa differenza.
Il primo lavoro, pubblicato da un gruppo di ricerca italiano (Sapone A et al, BMC Med. 2011;) descrive la diversità tra le due condizioni e segnala il fatto che mentre la celiachia è legata allo sviluppo di autoimmunità collegata alla immunità adattativa, nella gluten sensitivity si realizza l’attivazione della immunità innata in particolare con l’attivazione dei Recettori, deputati a sviluppare una risposta infiammatoria immediata e che giustificano l’infiammazione a bassa intensità sempre presente in queste condizioni.
Il secondo lavoro, pubblicato sull’American Journal of Gastroenterology. Il ricercatori identificano il colon irritabile da glutine senza espressione di celiachia, nonostante la presenza di una parziale presenza di DQ2 o di DQ8.
Interessante la frase di chiusura degli autori australiani: “Non-celiac gluten intolerance may exist”. L’intolleranza al glutine esiste, senza essere celiachia.
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Latte e derivati indeboliscono il sistema immunitario intestinale.
Il latte vaccino può creare intolleranze? È giusto berlo a colazione? Con cosa può essere sostituito? Domande cui risponde il professor Osvaldo Sponzilli.
Tralasciando quello materno, che fornisce al bambino tutti i fattori immunitari di cui ha bisogno finché è in grado di crearseli da solo, e che fa correre meno rischi di sviluppare un tumore al seno,alle ovaie o al collo dell’utero alla mamma che allatta, il latte vaccino può creare intolleranze? È giusto berlo a colazione? Con cosa può essere sostituito? Domande cui risponde il professor Osvaldo Sponzilli, Direttore Ambulatorio di Medicina Anti Aging, Omeopatia e Agopuntura all’Ospedale San Pietro FBF di Roma, nonché Docente Università Tor Vergata Roma.
"Nessun animale beve latte dopo lo svezzamento, tanto più di un’altra specie biologica. Solo l’uomo continua a berlo. Due sono le ragioni, una psicologica ed emotiva, che evoca il primo nutrimento materno e il bisogno di affetto e di coccole, l’altra pubblicitaria, dovuta a una informazione "pseudo-scientifica" che lo promuove come indispensabile contro l’osteoporosi. Ma abbiamo mai visto un animale osteoporotico? Come fanno le mucche e gli elefanti ad avere uno scheletro forte mangiando solo erba? L’organismo umano è in effetti in grado di compiere notevoli trasformazioni fisiche e chimiche delle sostanze; se un erbivoro è in grado di costruire le sue proteine di struttura ed i relativi aminoacidi dall’erba, non si vede perché non possa farlo anche l’uomo che, come ultimo grado evolutivo, contiene in se le potenzialità biologiche anche degli erbivori. Questo per sfatare le teorie che gli aminoacidi essenziali della carne o il calcio del latte siano indispensabili alla vita umana".
Il latte non è un alimento adatto all’uomo"Il fatto che il latte non sia un alimento adatto all’uomo dopo i primi anni di vita, lo dimostra il fatto che perdiamo le lattasi intorno ai quattro anni. Il latte è infatti composto da proteine e lattosio, il lattosio a sua volta è composto da due zuccheri, il glucosio e il galattosio, ebbene, la lattasi è un enzima che serve per scomporre il lattosio nei due zuccheri semplici per farli assimilare. Non è un caso che la natura abbia predisposto la scomparsa di questo enzima a 4 anni. Semplicemente perché il latte non è un alimento idoneo all’uomo adulto. La diffusione massiva del consumo di latte è venuta nel dopoguerra, importata dagli americani. Nel passato, i prodotti caseari ricavati dal latte venivano usati soprattutto dai pastori nella transumanza e dai naviganti che avevano bisogno di un grandi riserve caloriche e di grassi. Infatti, formaggi e latticini hanno una quota esagerata e squilibrata di lipidi rispetto alle proteine e agli zuccheri, per cui sono nocivi per colesterolo e trigliceridi. Ma quello che è più importante, è che circa l’80% della popolazione (fanno eccezione i scandinavi) soffrono, spesso senza saperlo di intolleranza al lattosio o alle proteine del latte vaccino. Intolleranza vuol dire che il sistema immunitario intestinale vive perennemente sotto stress biologico, come una vettura obbligata a viaggiare sempre in seconda o terza ed impossibilitata ad andare in quarta e quinta.
Qual è la conseguenza?"Abbassamento di difese del sistema immunitario, stanchezza, cefalee, catarro o allergie respiratorie, debolezza sessuale nell’uomo e diminuzione di fertilità nella donna o, ancora, predisposizione ad altre malattie. Ma ci sono anche altre riflessione che dovrebbero tenerci lontani dal "business latte". Le vacche sono riempite di ormoni per produrre il triplo di latte di quello che producevano trenta anni fa, con una conseguente mortalità precoce degli animali. Il risultato è un latte non solo stressante per il sistema immunologico intestinale, ma anche più povero di fattori nutritivo e ricco di ormoni e antiparassitari contenuti nei mangimi. Si potrebbe obiettare che lo yogurt e i formaggi stagionati non hanno più problemi di lattosio perché i processi di fermentazioni hanno fatto quello che avrebbe dovuto fare la lattasi, ma se questo è vero per l’intolleranza al lattosio, non è vero per le intolleranze alle proteine del latte vaccino. Si tratta di molecole proteiche molto più grandi di quelle del latte materno, basti pensare che quest’ultimo, essendo programmato per la specie umana, deve permettere uno sviluppo volumetrico di un bimbo che è assai più piccolo di un vitello".
Perché l’intolleranza alle proteine del latte vaccino è così diffusa?"Se il problema del lattosio è legato all’assenza dell’enzima, il problema proteico è legato alla precocità con cui si somministra il latte vaccino ai bambini, spesso fin da sei mesi. Per non parlare dei latti artificiali che derivano dal latte di vacca modificato. Ecco come si produce la sensibilizzazione all’alimento in un sistema intestinale non pronto a digerire una proteina inadeguata per l’età. Attenzione bisogna prestare a molti integratori, soprattutto ai pasti sostitutivi di alcune diete iperproteiche, che sono esclusivamente a base di proteine del latte. Dobbiamo quindi uscire dallo sterotipo dell’indispensabilità del latte vaccino per il calcio, in quanto gli intolleranti non ne assorbono affatto e i pochi tolleranti ne assorbono solo una minima parte associata ad altri micronutrienti come il fosforo. La realtà è che in 100gr di latte ci sono circa 118 mg. di calcio, spesso non assimilabile, mentre altri cibi ne contengono in quantità molto più alta e completamente assimilabile. Citiamo i legumi, le noci e le mandorle, quest’ultime, con 250 mg di calcio su 100 gr. Per non parlare di salmone e sardine con spine, delle alghe che spesso superano i 1000 mg. di calcio su 100 gr., i semi di sesamo e di tahin con 1160 mg di calcio su 100 gr. E poi cavoli, cime di rape, crescione, prezzemolo e tarassaco, tutti con contenuti di calcio superiori al latte.
In alternativa al latte vaccino"Gli altri latti vegetali, soya, riso, avena, mandorle, eccetera hanno il vantaggio di avere contenuto zero di colesterolo, un discreto apporto energetico e si si vuole proprio del calcio in commercio ce ne sono con elementi addizionati tra cui calcio e vitamina b12, ma a mio avviso è meglio cercare il calcio in altri alimenti più salubri".
Il latte vaccino può creare intolleranze? È giusto berlo a colazione? Con cosa può essere sostituito? Domande cui risponde il professor Osvaldo Sponzilli.
Tralasciando quello materno, che fornisce al bambino tutti i fattori immunitari di cui ha bisogno finché è in grado di crearseli da solo, e che fa correre meno rischi di sviluppare un tumore al seno,alle ovaie o al collo dell’utero alla mamma che allatta, il latte vaccino può creare intolleranze? È giusto berlo a colazione? Con cosa può essere sostituito? Domande cui risponde il professor Osvaldo Sponzilli, Direttore Ambulatorio di Medicina Anti Aging, Omeopatia e Agopuntura all’Ospedale San Pietro FBF di Roma, nonché Docente Università Tor Vergata Roma.
"Nessun animale beve latte dopo lo svezzamento, tanto più di un’altra specie biologica. Solo l’uomo continua a berlo. Due sono le ragioni, una psicologica ed emotiva, che evoca il primo nutrimento materno e il bisogno di affetto e di coccole, l’altra pubblicitaria, dovuta a una informazione "pseudo-scientifica" che lo promuove come indispensabile contro l’osteoporosi. Ma abbiamo mai visto un animale osteoporotico? Come fanno le mucche e gli elefanti ad avere uno scheletro forte mangiando solo erba? L’organismo umano è in effetti in grado di compiere notevoli trasformazioni fisiche e chimiche delle sostanze; se un erbivoro è in grado di costruire le sue proteine di struttura ed i relativi aminoacidi dall’erba, non si vede perché non possa farlo anche l’uomo che, come ultimo grado evolutivo, contiene in se le potenzialità biologiche anche degli erbivori. Questo per sfatare le teorie che gli aminoacidi essenziali della carne o il calcio del latte siano indispensabili alla vita umana".
Il latte non è un alimento adatto all’uomo"Il fatto che il latte non sia un alimento adatto all’uomo dopo i primi anni di vita, lo dimostra il fatto che perdiamo le lattasi intorno ai quattro anni. Il latte è infatti composto da proteine e lattosio, il lattosio a sua volta è composto da due zuccheri, il glucosio e il galattosio, ebbene, la lattasi è un enzima che serve per scomporre il lattosio nei due zuccheri semplici per farli assimilare. Non è un caso che la natura abbia predisposto la scomparsa di questo enzima a 4 anni. Semplicemente perché il latte non è un alimento idoneo all’uomo adulto. La diffusione massiva del consumo di latte è venuta nel dopoguerra, importata dagli americani. Nel passato, i prodotti caseari ricavati dal latte venivano usati soprattutto dai pastori nella transumanza e dai naviganti che avevano bisogno di un grandi riserve caloriche e di grassi. Infatti, formaggi e latticini hanno una quota esagerata e squilibrata di lipidi rispetto alle proteine e agli zuccheri, per cui sono nocivi per colesterolo e trigliceridi. Ma quello che è più importante, è che circa l’80% della popolazione (fanno eccezione i scandinavi) soffrono, spesso senza saperlo di intolleranza al lattosio o alle proteine del latte vaccino. Intolleranza vuol dire che il sistema immunitario intestinale vive perennemente sotto stress biologico, come una vettura obbligata a viaggiare sempre in seconda o terza ed impossibilitata ad andare in quarta e quinta.
Qual è la conseguenza?"Abbassamento di difese del sistema immunitario, stanchezza, cefalee, catarro o allergie respiratorie, debolezza sessuale nell’uomo e diminuzione di fertilità nella donna o, ancora, predisposizione ad altre malattie. Ma ci sono anche altre riflessione che dovrebbero tenerci lontani dal "business latte". Le vacche sono riempite di ormoni per produrre il triplo di latte di quello che producevano trenta anni fa, con una conseguente mortalità precoce degli animali. Il risultato è un latte non solo stressante per il sistema immunologico intestinale, ma anche più povero di fattori nutritivo e ricco di ormoni e antiparassitari contenuti nei mangimi. Si potrebbe obiettare che lo yogurt e i formaggi stagionati non hanno più problemi di lattosio perché i processi di fermentazioni hanno fatto quello che avrebbe dovuto fare la lattasi, ma se questo è vero per l’intolleranza al lattosio, non è vero per le intolleranze alle proteine del latte vaccino. Si tratta di molecole proteiche molto più grandi di quelle del latte materno, basti pensare che quest’ultimo, essendo programmato per la specie umana, deve permettere uno sviluppo volumetrico di un bimbo che è assai più piccolo di un vitello".
Perché l’intolleranza alle proteine del latte vaccino è così diffusa?"Se il problema del lattosio è legato all’assenza dell’enzima, il problema proteico è legato alla precocità con cui si somministra il latte vaccino ai bambini, spesso fin da sei mesi. Per non parlare dei latti artificiali che derivano dal latte di vacca modificato. Ecco come si produce la sensibilizzazione all’alimento in un sistema intestinale non pronto a digerire una proteina inadeguata per l’età. Attenzione bisogna prestare a molti integratori, soprattutto ai pasti sostitutivi di alcune diete iperproteiche, che sono esclusivamente a base di proteine del latte. Dobbiamo quindi uscire dallo sterotipo dell’indispensabilità del latte vaccino per il calcio, in quanto gli intolleranti non ne assorbono affatto e i pochi tolleranti ne assorbono solo una minima parte associata ad altri micronutrienti come il fosforo. La realtà è che in 100gr di latte ci sono circa 118 mg. di calcio, spesso non assimilabile, mentre altri cibi ne contengono in quantità molto più alta e completamente assimilabile. Citiamo i legumi, le noci e le mandorle, quest’ultime, con 250 mg di calcio su 100 gr. Per non parlare di salmone e sardine con spine, delle alghe che spesso superano i 1000 mg. di calcio su 100 gr., i semi di sesamo e di tahin con 1160 mg di calcio su 100 gr. E poi cavoli, cime di rape, crescione, prezzemolo e tarassaco, tutti con contenuti di calcio superiori al latte.
In alternativa al latte vaccino"Gli altri latti vegetali, soya, riso, avena, mandorle, eccetera hanno il vantaggio di avere contenuto zero di colesterolo, un discreto apporto energetico e si si vuole proprio del calcio in commercio ce ne sono con elementi addizionati tra cui calcio e vitamina b12, ma a mio avviso è meglio cercare il calcio in altri alimenti più salubri".
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Storia di un miracolo scientifico
In america, nel ’68, un giovane medico del pronto soccorso visitò un paziente, Mr. DeAngelo, per un banale problema di calcoli alla cistifellea. Questi presentava un’enorme cicatrice sulla pancia e gli raccontò una storia incredibile.
Diceva che dodici anni prima, proprio in quell’ospedale, era stato “aperto e richiuso” per un cancro incurabile, e rispedito a casa per morire.
Il medico non poteva credere ad una simile storia, ma visto che costava poco, per curiosità fece una ricerca di archivio … e scoprì che era tutto vero.
La cartella clinica conteneva anche la radiografia di una massa tumorale nello stomaco, grande quanto un pugno, inoltre l’indagine chirurgica aveva rilevato tre masse tumorali nel fegato; il tumore era stato riconosciuto come particolarmente aggressivo ed invasivo, ed aveva già attaccato il sistema linfatico.
Cosa era successo?
Il sistema immunitario aveva riconosciuto il cancro e lo aveva distrutto.
Questo episodio cambiò la vita del giovane medico, Steven A. Rosemberg, e di tanti ammalati di cancro. Perché Rosemberg è ora un ricercatore di fama mondiale, ed ha inventato la teoria biologica del cancro, da cui nascono efficaci protocolli di cura basati sul rafforzamento del sistema immunitario.
In america, nel ’68, un giovane medico del pronto soccorso visitò un paziente, Mr. DeAngelo, per un banale problema di calcoli alla cistifellea. Questi presentava un’enorme cicatrice sulla pancia e gli raccontò una storia incredibile.
Diceva che dodici anni prima, proprio in quell’ospedale, era stato “aperto e richiuso” per un cancro incurabile, e rispedito a casa per morire.
Il medico non poteva credere ad una simile storia, ma visto che costava poco, per curiosità fece una ricerca di archivio … e scoprì che era tutto vero.
La cartella clinica conteneva anche la radiografia di una massa tumorale nello stomaco, grande quanto un pugno, inoltre l’indagine chirurgica aveva rilevato tre masse tumorali nel fegato; il tumore era stato riconosciuto come particolarmente aggressivo ed invasivo, ed aveva già attaccato il sistema linfatico.
Cosa era successo?
Il sistema immunitario aveva riconosciuto il cancro e lo aveva distrutto.
Questo episodio cambiò la vita del giovane medico, Steven A. Rosemberg, e di tanti ammalati di cancro. Perché Rosemberg è ora un ricercatore di fama mondiale, ed ha inventato la teoria biologica del cancro, da cui nascono efficaci protocolli di cura basati sul rafforzamento del sistema immunitario.
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Il sistema immunitario
In questo articolo vediamo alcuni aspetti del sistema immunitario (spesso chiamato nel sito SI), un elemento fondamentale per la comprensione della salute.
Due tumori a testa
Un essere umano del nostro tempo, nell’arco della propria vita, sviluppa in media due tumori che vengono distrutti dal sistema immunitario. Ce lo dice una ricerca scientifica statistica, realizzata su un campione significativo di autopsie. Ciò significa che l’instaurazione di un tumore avviene dopo una battaglia persa dal sistema immunitario per eliminarlo.
Il cancro è una malattia terribile, che ci stringe sempre più da vicino. Eppure la medicina moderna ritiene che le malattie autoimmuni siano un nemico ancora peggiore, anche se meno eclatante. Queste si manifestano quando il sistema immunitario diviene troppo attivo, ed aggredisce il nostro stesso organismo. Lo stesso meccanismo è alla base delle allergie e delle intolleranze.
Da questi flash si capisce come l’equilibrio del sistema immunitario sia un fattore primario della nostra salute (v. anche miracolo scientifico).
Sistema immunitario: dov’è localizzato?
Questa domanda ci porta a capire meglio un altro aspetto della sua importanza: la diffusione. Il SI trova in tutto l'organismo (la figura ne mostra solo una parte).
Tanto per cominciare è dislocato nella pelle, la nostra barriera verso l’esterno.
Poi nelle mucose, la nostra barriera verso l’interno, cioè tutto il tubo digerente dalla bocca all’ano, stomaco, intestino, l’albero respiratorio (dal naso ai bronchi), l’urogenitale, l’occhio esterno. Le mucose contengono un tessuto, detto MALT, tessuto linfoide associato alle mucose, che rappresenta un unico sistema (questo spiega come un’infezione alle vie urinarie possa avere un riscontro a livello polmonare); la porzione di MALT dell’intestino è il GALT, particolarmente importante per le sue connessioni con il sistema neurovegetativo v. il cervello enterico
Il sangue, tessuto che irrora tutto l’organismo, contiene i leucociti, o linfociti o globuli bianchi che dir si voglia. Si formano nel midollo osseo ed uscendo dai capillari si distribuiscono in tutti gli altri tessuti molli. dunque è presente anche nelle ossa, e nelle cartilagini, dove, quando non è in equilibrio, provoca le varie forme di artrite.
Il sistema linfatico trasporta i linfociti. Avete presente quando le ghiandole linfatiche si gonfiano? È perché sono sottoposte a superlavoro per difenderci da infezioni; non sono malate, stanno reagendo ad un agente patogeno.
Contrariamente a quanto si pensava fino a qualche anno fa, anche nel cervello ci sono dei particolari linfociti detti microglia.
Il trasformista (il linfocita)
La parola “sistema” sottolinea che tutte le varie componenti si comportano come un unico insieme.
Sappiamo anche che tutte la parti del nostro organismo sono strettamente interconnesse.
Il sistema immunitario è indistricabilmente correlato con gli altri sistemi, in particolar modo con sistema nervoso ed endocrino.
Il linfocita, cellula chiave del sistema immunitario, produce ed accetta neurotrasmettitori (messaggeri del sistema neurovegetativo) e molti tipi di ormoni, quindi appartiene contemporaneamente anche al sistema nervoso ed endocrino.
Anche se tutte le parti del sistema immunitario sono in comunicazione, ci sono cellule specializzate che devono essere confinate in aree specifiche del corpo.
Ad esempio, le lesioni dell’occhio interno possono provocare la fuoriuscita di cellule che aggrediscono il tessuto oculare credendolo un antigene.
La vista interna
Gli scienziati tendono a considerare il sistema immunitario come un sofisticato organo di senso, rivolto verso l’interno. Il sistema, nel suo insieme, effettua una continua azione di monitoraggio e pattugliamento, alla ricerca di situazioni e sostanze dannose al corretto funzionamento dell’organismo.
I cinque organi di senso ci avvisano quando si creano situazioni pericolose e la percezione interna è volta a scoprire batteri, virus e tossine ed altre sostanze dannose per ogni particolare area dell’organismo.
È interessante notare che la struttura del sistema immunitario ricalca quella del sistema nervoso.
Questo particolare senso interno è modulato dallo stato generale, dal sistema endocrino, da quello neurologico e da tutti gli altri sensi.
Memoria e apprendimento del SI
La funzione di vigilanza è svolta principalmente dai linfociti, che pattugliano tutto il corpo per riconoscere gli antigeni.
Quando trovano un antigene in alcuni casi lo distruggono, ne separano le componenti e su queste iniziano il processo di riconoscimento.
Inizia quindi la creazione di un anticorpo adatto alla distruzione, la sua produzione e la dislocazione nelle aree strategiche.
Questi processi possono richiedere anche dei giorni, ed impegnare profondamente le funzioni organiche. Così il sistema immunitario ha una sofisticata funzione di memoria, che gli consente, dopo il primo contatto, di reagire molto più velocemente.
Un equilibrio delicato
Per distruggere gli aggressori esterni ed interni il sistema immunitario usa una quantità di strumenti pericolosi (v. le armi del sistema immunitario), che se vanno fuori controllo possono lasciarci scoperti o provocare danni gravi, fino ad arrivare alle malattie autoimmuni.
Ho dormito poco e mi sono buscato un raffreddore
Potrebbe sembrare un’affermazione stravagante, invece perdendo per una notte qualche ora di sonno anche un giovane nel pieno delle forze registra una drastica riduzione dei linfociti (globuli bianche) circolanti. Intendiamoci, non vengono distrutti, restano confinati in alcuni argani di deposito, detti linfopoietici, tuttavia non svolgono la loro funzione difensiva.
Questo è un esempio di quanto c’insegna la psiconeuroimmunologia: tutto nel nostro organismo è interconnesso, e forma una rete in cui l’equilibrio è la condizione di salute.
I nemici
Dunque è importante capire cosa è buono e cosa risulta nocivo per il sistema immunitario o, per usare termini più precisi, cosa influisce sul suo equilibrio all’interno della rete.
I nemici sono quelli soliti (v. I soliti noti), tra cui vanno annoverati anche interventi terapeutici poco felici (v. sintomo e causa).
Medicine naturali e sistema immunitario
Nelle medicine naturali il sistema immunitario viene sempre considerato come un elemento centrale. Non si può pensare ad un approccio che non ne tenga conto.
Per riequilibrare il sistema immunitario si può ricorrere alle piante (ci sono molti immunostimolanti), all’omeopatia, all’alimentazione, al cambiamento di stile di vita.
Come sempre, d’altra parte, il sistema immunitario non viene mai considerato da solo, perché l’approccio della medicina naturale è centrato sull’individuo nella sua totalità.
In questo articolo vediamo alcuni aspetti del sistema immunitario (spesso chiamato nel sito SI), un elemento fondamentale per la comprensione della salute.
Due tumori a testa
Un essere umano del nostro tempo, nell’arco della propria vita, sviluppa in media due tumori che vengono distrutti dal sistema immunitario. Ce lo dice una ricerca scientifica statistica, realizzata su un campione significativo di autopsie. Ciò significa che l’instaurazione di un tumore avviene dopo una battaglia persa dal sistema immunitario per eliminarlo.
Il cancro è una malattia terribile, che ci stringe sempre più da vicino. Eppure la medicina moderna ritiene che le malattie autoimmuni siano un nemico ancora peggiore, anche se meno eclatante. Queste si manifestano quando il sistema immunitario diviene troppo attivo, ed aggredisce il nostro stesso organismo. Lo stesso meccanismo è alla base delle allergie e delle intolleranze.
Da questi flash si capisce come l’equilibrio del sistema immunitario sia un fattore primario della nostra salute (v. anche miracolo scientifico).
Sistema immunitario: dov’è localizzato?
Questa domanda ci porta a capire meglio un altro aspetto della sua importanza: la diffusione. Il SI trova in tutto l'organismo (la figura ne mostra solo una parte).
Tanto per cominciare è dislocato nella pelle, la nostra barriera verso l’esterno.
Poi nelle mucose, la nostra barriera verso l’interno, cioè tutto il tubo digerente dalla bocca all’ano, stomaco, intestino, l’albero respiratorio (dal naso ai bronchi), l’urogenitale, l’occhio esterno. Le mucose contengono un tessuto, detto MALT, tessuto linfoide associato alle mucose, che rappresenta un unico sistema (questo spiega come un’infezione alle vie urinarie possa avere un riscontro a livello polmonare); la porzione di MALT dell’intestino è il GALT, particolarmente importante per le sue connessioni con il sistema neurovegetativo v. il cervello enterico
Il sangue, tessuto che irrora tutto l’organismo, contiene i leucociti, o linfociti o globuli bianchi che dir si voglia. Si formano nel midollo osseo ed uscendo dai capillari si distribuiscono in tutti gli altri tessuti molli. dunque è presente anche nelle ossa, e nelle cartilagini, dove, quando non è in equilibrio, provoca le varie forme di artrite.
Il sistema linfatico trasporta i linfociti. Avete presente quando le ghiandole linfatiche si gonfiano? È perché sono sottoposte a superlavoro per difenderci da infezioni; non sono malate, stanno reagendo ad un agente patogeno.
Contrariamente a quanto si pensava fino a qualche anno fa, anche nel cervello ci sono dei particolari linfociti detti microglia.
Il trasformista (il linfocita)
La parola “sistema” sottolinea che tutte le varie componenti si comportano come un unico insieme.
Sappiamo anche che tutte la parti del nostro organismo sono strettamente interconnesse.
Il sistema immunitario è indistricabilmente correlato con gli altri sistemi, in particolar modo con sistema nervoso ed endocrino.
Il linfocita, cellula chiave del sistema immunitario, produce ed accetta neurotrasmettitori (messaggeri del sistema neurovegetativo) e molti tipi di ormoni, quindi appartiene contemporaneamente anche al sistema nervoso ed endocrino.
Anche se tutte le parti del sistema immunitario sono in comunicazione, ci sono cellule specializzate che devono essere confinate in aree specifiche del corpo.
Ad esempio, le lesioni dell’occhio interno possono provocare la fuoriuscita di cellule che aggrediscono il tessuto oculare credendolo un antigene.
La vista interna
Gli scienziati tendono a considerare il sistema immunitario come un sofisticato organo di senso, rivolto verso l’interno. Il sistema, nel suo insieme, effettua una continua azione di monitoraggio e pattugliamento, alla ricerca di situazioni e sostanze dannose al corretto funzionamento dell’organismo.
I cinque organi di senso ci avvisano quando si creano situazioni pericolose e la percezione interna è volta a scoprire batteri, virus e tossine ed altre sostanze dannose per ogni particolare area dell’organismo.
È interessante notare che la struttura del sistema immunitario ricalca quella del sistema nervoso.
Questo particolare senso interno è modulato dallo stato generale, dal sistema endocrino, da quello neurologico e da tutti gli altri sensi.
Memoria e apprendimento del SI
La funzione di vigilanza è svolta principalmente dai linfociti, che pattugliano tutto il corpo per riconoscere gli antigeni.
Quando trovano un antigene in alcuni casi lo distruggono, ne separano le componenti e su queste iniziano il processo di riconoscimento.
Inizia quindi la creazione di un anticorpo adatto alla distruzione, la sua produzione e la dislocazione nelle aree strategiche.
Questi processi possono richiedere anche dei giorni, ed impegnare profondamente le funzioni organiche. Così il sistema immunitario ha una sofisticata funzione di memoria, che gli consente, dopo il primo contatto, di reagire molto più velocemente.
Un equilibrio delicato
Per distruggere gli aggressori esterni ed interni il sistema immunitario usa una quantità di strumenti pericolosi (v. le armi del sistema immunitario), che se vanno fuori controllo possono lasciarci scoperti o provocare danni gravi, fino ad arrivare alle malattie autoimmuni.
Ho dormito poco e mi sono buscato un raffreddore
Potrebbe sembrare un’affermazione stravagante, invece perdendo per una notte qualche ora di sonno anche un giovane nel pieno delle forze registra una drastica riduzione dei linfociti (globuli bianche) circolanti. Intendiamoci, non vengono distrutti, restano confinati in alcuni argani di deposito, detti linfopoietici, tuttavia non svolgono la loro funzione difensiva.
Questo è un esempio di quanto c’insegna la psiconeuroimmunologia: tutto nel nostro organismo è interconnesso, e forma una rete in cui l’equilibrio è la condizione di salute.
I nemici
Dunque è importante capire cosa è buono e cosa risulta nocivo per il sistema immunitario o, per usare termini più precisi, cosa influisce sul suo equilibrio all’interno della rete.
I nemici sono quelli soliti (v. I soliti noti), tra cui vanno annoverati anche interventi terapeutici poco felici (v. sintomo e causa).
Medicine naturali e sistema immunitario
Nelle medicine naturali il sistema immunitario viene sempre considerato come un elemento centrale. Non si può pensare ad un approccio che non ne tenga conto.
Per riequilibrare il sistema immunitario si può ricorrere alle piante (ci sono molti immunostimolanti), all’omeopatia, all’alimentazione, al cambiamento di stile di vita.
Come sempre, d’altra parte, il sistema immunitario non viene mai considerato da solo, perché l’approccio della medicina naturale è centrato sull’individuo nella sua totalità.