Papà non è più qui e io sono persa.
Inviato: lun 16 mag 2016, 23:58
E' la prima volta che parlo di mio padre e di cosa è stato per me. Di cos'è stata la nostra battaglia.
Mio padre era un geometra di mestiere ma un agricoltore di vocazione. Mio padre era la terra che coltivava con lo stesso amore e la stessa energia con cui ha cresciuto me. Sempre distante per lavoro e per quel carattere così chiuso che mi porto sulle spalle anche io. Era l'anima della festa, fino a quando non si doveva parlare di lui. A quel punto, papà si chiudeva.
A settembre ero tornata a Milano stambilmente, per stare vicino ai miei genitori, dopo un anno di trasferte per lavoro e studio in tutta italia. Ero stanca, e volevo godermi i miei "vecchietti".
A settembre, papà è venuto a milano a trovarmi, da solo. Col suo cappello calzato, i suoi completi sempre del colore della terra e i baffi folti, il mio papà in mezzo a Milano sembrava il Peppone del Don Camillo. E questa cosa mi ha sempre fatto ridere. Però non aveva più la pancia prominente di un tempo. In un anno era dimagrito. Troppo, dicevo io.
A ottobre, a seguito di un operazione che avrebbe dovuto sistemare la circolazione delle gambe con degli stant, gli viene diagnosticata una Leucemia Acuta Mieloide Differenziata. Me lo ha detto lui, e io non ho avuto paura. Perchè lui non ne aveva, sarebbe guarito, e io dubbi non ne avevo, perchè lui riusciva sempre in tutto, ed era il mio metro di paragone col mondo e con me stessa. Lui è tutti i miie traguardi.
Comincia una storia di ricoveri in ospedale, di uscite brevi, di peggioramenti. Lui è molto arrabbiato, non mi permette di stargli vicino perchè io sono la sua bambina e le bambine non si prendono cura dei Papà. Sono i papà che devono prendersi cura dei figli. E lui mi dice che tanto passa. E io gli rispondo che si, passa tutto. Ma le cose non vanno meglio, i medici continuano a dirci cose a metà e mamma non ce la fa più perchè lui era la sua stabilità e lei è persa e più arrabbiata di lui. Mamma molla, si ammala come quando ero piccola, le viene la febbre e il mal di testa che per lei è debilitante tanto da lasciarla due giorni a letto. Io la sostituisco, lui mi tratta male. Io sto zitta, e sto di fianco a lui. Gli metto le ciabatte, come quando ero piccola e lui tornava a casa il sabato e la domenica per stare con me. Io gli trotterellavo con le ciabbatte incontro. Lui mi lascia fare e piano piano inizia a sorridere, a piangere e a parlarmi. Mi racconta che è difficile, che la vita inizia in ospedale, che avrebbe scritto un libro quando tutto sarebbe finito. Ride e scherza, con me. Non vuole più mamma, perchè capisce che lei non ce la fa, non vuole farle male ma a volte la rabbia prende il sopravvento, e lei non è in grado di comprenderlo. Io si, come sempre.
La storia continua con la simbiosi con mio padre, si riempie di dolore, di lacrime, di ricette medice, di esami, di notizie rimandate e di trasfusioni. Una marea di trasfusioni. Ma soprattutto, è piena di libri di Andrea Vitali, dei raggi di sole che entravano dalla finestra, quando arrivavo io e alzavo le tapparelle, di foto e sorrisi sdentati, di biscotti magiati di nascosto perchè tanto il diabete era basso, dei miei viaggi interminabili in treno, avanti e indietro da Pavia a Milano, delle sue ore da solo e delle chiamate indagatorie ogni 5 minuti, per sapere quando arrivavo, delle sue richieste da bambino, se potevo portargli "la cocacola per favore ciao grazie metto giù", di di me e lui che sonnecchiamo e ci osserviamo a turno, in silenzio per non disrturbarci, come abbiamo fatto per una vita intera.
La storia si conclude con lui che mi dice che torna a casa, che è andata così. Mi chiede se lo sapevo già, e da quanto. Lo sapevo da una settimana, da quando ho chiamato qualcuno per il turno della notte. Avevo cominciato a prospettargli che questa battaglia potevamo non vincerla, e nel caso fosse andata così, se era soddisfatto della sua vita, o se voleva qualcosa di più, qualcosa che avremmo potuto fare. Lunedì le sue risposte erano arrabbiate, brevi e taglienti. La domenica mi ha detto con serenità che no, non voleva niente di più, se non godersi ancora me, ancora mamma, ancora la casa in collina, con il suo orto.
E non ho voluto che gli dicessero niente, fino a quando la risposta non sarebbe stata questa. Volevo che continuasse a non avere paura, ne rimpianti.
Il 17 marzo Papà era a casa da qualche giorno. Ha conosciuto i genitori del mio moroso. Il 18 marzo mi ha detto: "vorrei dirti qualcosa sulla vita, fare un discorso come Steve Jobs, ma non so cosa dirti..." gli ho risposto "Papà, non servono sempre le parole. Non ne hai mai dette molte, ma come siamo qui oggi, come abbiamo combattuto e come stiamo tenendoci per mano, significa che anche senza usare le parole, nella vita qualcosa mi hai detto, e che io qualcosa ho capito." Ha annuito. Quella notte ha detto tutte queste parole, le mie e le sue tutte insieme, tutte d'un fiato, alla mamma. Perchè gli sembrava qualcosa di saggio, suppongo. Poi ha aggiunto: "Ciao, io dormo."
Il pomeriggio del 19 papà non parlava più, ma ha fatto in tempo a salutare il suo migliore amico di una vita, che non chiamava mai per non disturbarlo, come sempre. Quindi l'ho chiamato io. Non parlava già quasi più ma ha spalancato gli occhi e gli ha detto: "Mario!!! Cosa fai qui!" Mio papà a chiuso gli occhi sorridendo, grazie a lui.
Il 20 Marzo alla 1:30 Papà è morto. Con la mia mano nella sua.
Fino alla fine del funerale ho pensato a tutto io, mamma non ce la faceva.
Ora è quasi passato un mese. Io ho ripreso a lavorare, ho ringraziato gli amici, sto riprendendo i miei ritmi. Apparentemente, razionalmente, va tutto bene. Eppure a me sembra tanto che io questa cosa non la stia affrontando. E' come se non fosse davvero davvero morto. Come se dovesse tornare, come quando ero piccola, che lo aspettavo con le ciabatte. Lui per me era il genitore. Amo mia madre, ma mia madre è mia figlia. E' come se avessi perso il pacchetto completo. Sono io che mi devo occupare di me, e di lei, che ne ha bisogno. E io ho 26 anni. E ho paura. E mi manca.
Mio padre era un geometra di mestiere ma un agricoltore di vocazione. Mio padre era la terra che coltivava con lo stesso amore e la stessa energia con cui ha cresciuto me. Sempre distante per lavoro e per quel carattere così chiuso che mi porto sulle spalle anche io. Era l'anima della festa, fino a quando non si doveva parlare di lui. A quel punto, papà si chiudeva.
A settembre ero tornata a Milano stambilmente, per stare vicino ai miei genitori, dopo un anno di trasferte per lavoro e studio in tutta italia. Ero stanca, e volevo godermi i miei "vecchietti".
A settembre, papà è venuto a milano a trovarmi, da solo. Col suo cappello calzato, i suoi completi sempre del colore della terra e i baffi folti, il mio papà in mezzo a Milano sembrava il Peppone del Don Camillo. E questa cosa mi ha sempre fatto ridere. Però non aveva più la pancia prominente di un tempo. In un anno era dimagrito. Troppo, dicevo io.
A ottobre, a seguito di un operazione che avrebbe dovuto sistemare la circolazione delle gambe con degli stant, gli viene diagnosticata una Leucemia Acuta Mieloide Differenziata. Me lo ha detto lui, e io non ho avuto paura. Perchè lui non ne aveva, sarebbe guarito, e io dubbi non ne avevo, perchè lui riusciva sempre in tutto, ed era il mio metro di paragone col mondo e con me stessa. Lui è tutti i miie traguardi.
Comincia una storia di ricoveri in ospedale, di uscite brevi, di peggioramenti. Lui è molto arrabbiato, non mi permette di stargli vicino perchè io sono la sua bambina e le bambine non si prendono cura dei Papà. Sono i papà che devono prendersi cura dei figli. E lui mi dice che tanto passa. E io gli rispondo che si, passa tutto. Ma le cose non vanno meglio, i medici continuano a dirci cose a metà e mamma non ce la fa più perchè lui era la sua stabilità e lei è persa e più arrabbiata di lui. Mamma molla, si ammala come quando ero piccola, le viene la febbre e il mal di testa che per lei è debilitante tanto da lasciarla due giorni a letto. Io la sostituisco, lui mi tratta male. Io sto zitta, e sto di fianco a lui. Gli metto le ciabatte, come quando ero piccola e lui tornava a casa il sabato e la domenica per stare con me. Io gli trotterellavo con le ciabbatte incontro. Lui mi lascia fare e piano piano inizia a sorridere, a piangere e a parlarmi. Mi racconta che è difficile, che la vita inizia in ospedale, che avrebbe scritto un libro quando tutto sarebbe finito. Ride e scherza, con me. Non vuole più mamma, perchè capisce che lei non ce la fa, non vuole farle male ma a volte la rabbia prende il sopravvento, e lei non è in grado di comprenderlo. Io si, come sempre.
La storia continua con la simbiosi con mio padre, si riempie di dolore, di lacrime, di ricette medice, di esami, di notizie rimandate e di trasfusioni. Una marea di trasfusioni. Ma soprattutto, è piena di libri di Andrea Vitali, dei raggi di sole che entravano dalla finestra, quando arrivavo io e alzavo le tapparelle, di foto e sorrisi sdentati, di biscotti magiati di nascosto perchè tanto il diabete era basso, dei miei viaggi interminabili in treno, avanti e indietro da Pavia a Milano, delle sue ore da solo e delle chiamate indagatorie ogni 5 minuti, per sapere quando arrivavo, delle sue richieste da bambino, se potevo portargli "la cocacola per favore ciao grazie metto giù", di di me e lui che sonnecchiamo e ci osserviamo a turno, in silenzio per non disrturbarci, come abbiamo fatto per una vita intera.
La storia si conclude con lui che mi dice che torna a casa, che è andata così. Mi chiede se lo sapevo già, e da quanto. Lo sapevo da una settimana, da quando ho chiamato qualcuno per il turno della notte. Avevo cominciato a prospettargli che questa battaglia potevamo non vincerla, e nel caso fosse andata così, se era soddisfatto della sua vita, o se voleva qualcosa di più, qualcosa che avremmo potuto fare. Lunedì le sue risposte erano arrabbiate, brevi e taglienti. La domenica mi ha detto con serenità che no, non voleva niente di più, se non godersi ancora me, ancora mamma, ancora la casa in collina, con il suo orto.
E non ho voluto che gli dicessero niente, fino a quando la risposta non sarebbe stata questa. Volevo che continuasse a non avere paura, ne rimpianti.
Il 17 marzo Papà era a casa da qualche giorno. Ha conosciuto i genitori del mio moroso. Il 18 marzo mi ha detto: "vorrei dirti qualcosa sulla vita, fare un discorso come Steve Jobs, ma non so cosa dirti..." gli ho risposto "Papà, non servono sempre le parole. Non ne hai mai dette molte, ma come siamo qui oggi, come abbiamo combattuto e come stiamo tenendoci per mano, significa che anche senza usare le parole, nella vita qualcosa mi hai detto, e che io qualcosa ho capito." Ha annuito. Quella notte ha detto tutte queste parole, le mie e le sue tutte insieme, tutte d'un fiato, alla mamma. Perchè gli sembrava qualcosa di saggio, suppongo. Poi ha aggiunto: "Ciao, io dormo."
Il pomeriggio del 19 papà non parlava più, ma ha fatto in tempo a salutare il suo migliore amico di una vita, che non chiamava mai per non disturbarlo, come sempre. Quindi l'ho chiamato io. Non parlava già quasi più ma ha spalancato gli occhi e gli ha detto: "Mario!!! Cosa fai qui!" Mio papà a chiuso gli occhi sorridendo, grazie a lui.
Il 20 Marzo alla 1:30 Papà è morto. Con la mia mano nella sua.
Fino alla fine del funerale ho pensato a tutto io, mamma non ce la faceva.
Ora è quasi passato un mese. Io ho ripreso a lavorare, ho ringraziato gli amici, sto riprendendo i miei ritmi. Apparentemente, razionalmente, va tutto bene. Eppure a me sembra tanto che io questa cosa non la stia affrontando. E' come se non fosse davvero davvero morto. Come se dovesse tornare, come quando ero piccola, che lo aspettavo con le ciabatte. Lui per me era il genitore. Amo mia madre, ma mia madre è mia figlia. E' come se avessi perso il pacchetto completo. Sono io che mi devo occupare di me, e di lei, che ne ha bisogno. E io ho 26 anni. E ho paura. E mi manca.