Come muoiono i medici...

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Utente2018
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Iscritto il: lun 2 lug 2018, 2:46

Come muoiono i medici...

Messaggio da Utente2018 »

Molto interessanti questo articolo..

Il medico e il Sistema.

Come muoiono i medici.
“Anni fa Charlie, un ortopedico molto stimato, scoprì di avere un nodulo all’altezza dello stomaco. Si fece visitare da un chirurgo e gli fu diagnosticato un tumore al pancreas. Il chirurgo era uno dei migliori degli Stati Uniti: per quel tipo di tumore aveva inventato una nuova cura, capace di triplicare le probabilità che un paziente sopravvivesse per altri 5 anni, sia pure con un peggioramento della qualità della vita. Charlie disse che non era interessato. Il giorno dopo tornò a casa, chiuse il suo studio e non rimise più piede in ospedale. Voleva solo passare più tempo con la famiglia e stare il meglio possibile. Dopo qualche mese morì a casa sua, senza mai essersi sottoposto a cicli di chemioterapia o a interventi chirurgici.
Anche i medici muoiono, ma non lo fanno come tutte le altre persone. Non ricevono più cure rispetto alla maggior parte degli altri. Quando tocca a loro, tendono ad affrontare il momento con serenità. Sanno esattamente cosa sta per succedere, sanno quali scelte hanno a disposizione. Di norma possono accedere a tutte le cure mediche che desiderano, ma preferiscono non entrare nel gorgo e andarsene in punta di piedi.
Naturalmente anche i medici non vogliono morire. Si dà il caso, però, che conoscano la medicina moderna abbastanza bene da sapere quali sono i suoi limiti. Conoscono abbastanza bene pure la morte, e per questo sanno di cosa hanno paura le persone: morire soffrendo e morire da sole. Ne hanno parlato con le loro famiglie. Quindi quando arriva il loro momento vogliono essere sicuri che non ci saranno eroismi, che nessuno all’ultimo istante gli fratturi le costole, tentando di resuscitarli con la rianimazione cardiopolmonare.
Quasi tutti i professionisti della medicina hanno visto almeno un paziente sottoposto al cosiddetto accanimento terapeutico, l’uso di tecnologie all’avanguardia su persone gravemente malate e in fin di vita. Il paziente viene aperto, intubato, attaccato a una macchina e bombardato di farmaci. Tutto questo avviene nel reparto di terapia intensiva. Il risultato è un livello di sofferenza che non augurerei neanche al peggiore dei terroristi.
Non si contano le volte che un collega medico mi ha detto: “Promettimi che se mi vedi ridotto così mi ammazzi”. Dicono sul serio. Alcuni medici portano dei medaglioni con la scritta “No code” (nessun codice) per non farsi praticare la rianimazione cardiopolmonare. Qualcuno se l’è fatto addirittura tatuare.
È angosciante sottoporre le persone a cure mediche che le fanno soffrire. I medici sono addestrati a raccogliere informazioni senza mai rivelare il loro stato d’animo, ma in privato, tra i colleghi, si sfogano: “Come si fa a infliggere una cosa del genere a un familiare?”. Forse è per questo che tra i medici si registrano tassi di alcolismo e depressione superiori a quelli di quasi tutte le altre categorie professionali. Di certo è uno dei motivi che mi hanno convinto a smettere di lavorare in ospedale negli ultimi dieci anni in cui ho esercitato.
Come siamo arrivati a questo punto? Possibile che i medici prescrivano tante cure e poi non le vogliano per loro stessi? La risposta va cercata nel rapporto tra il paziente, il medico e il sistema.
Per capire il ruolo dei pazienti e dei loro familiari, poniamo il caso in cui qualcuno perda conoscenza e sia portato al pronto soccorso. Come spesso succede, nessuno è preparato per una situazione del genere. I familiari, spaventati e sotto shock, si trovano di fronte a delle scelte e non sanno cosa fare. Quando i medici gli chiedono se vogliono che venga fatto “di tutto” per salvarlo, rispondono di sì. A quel punto comincia l’incubo. A volte le famiglie vogliono davvero “che si faccia di tutto”, ma più spesso quello che intendono è “tutto ciò che è ragionevole fare”. Il problema è che forse non sanno cos’è ragionevole, e nello stato di confusione e angoscia in cui si trovano neanche lo chiedono né ascoltano cosa dice il medico. Da parte sua il medico, se qualcuno gli dice di fare “di tutto” lo fa, che sia ragionevole o no.
Lo scenario appena descritto è molto comune. A tutto questo si aggiungono le aspettative eccessive sul reale potere dei medici. Molti pensano che la rianimazione cardiopolmonare sia una tecnica efficace, mentre di solito dà scarsi risultati. Ho visto centinaia di pazienti portati al pronto soccorso dopo essere stati sottoposti a rianimazione cardiopolmonare. Solo uno, un signore sano, che non aveva problemi cardiaci, è uscito dall’ospedale con le sue gambe. Se un paziente è gravemente malato, anziano o a uno stadio terminale, le probabilità che la rianimazione cardiopolmonare abbia successo sono infinitesimali, mentre quelle di infliggere ulteriori sofferenze sono altissime. (...) Le parti sono semplicemente le vittime di un sistema che incoraggia l’eccesso terapeutico. (...) Il sistema può travolgere anche chi si è preparato nel migliore dei modi. (...) Jack, un mio paziente di 78 anni, anche se aveva messo per iscritto le sue volontà, non era morto come sperava. Era intervenuto il sistema. Jack era stato attaccato alle macchine contro la sua volontà esplicita, allungandogli la vita, e l’agonia, di qualche settimana. (...)
Questo, però, non succede quasi mai quando i medici devono curare se stessi, perché conoscono le conseguenze dell’accanimento terapeutico. Tutti più o meno possono trovare un modo di morire in pace a casa, e oggi è molto più facile gestire il dolore. Le case di cura che assistono i malati terminali cercano di offrire ai pazienti agio e dignità invece di terapie inutili, dando molto più senso ai loro ultimi giorni di vita...” (Ken Murray, è assistente alla facoltà di medicina familiare all’University of Southern California. Dall’articolo “Come muore un medico”, Zòcalo Public Square, Stati Uniti, Riv. italiana Internazionale, n.968, 28 settembre 2012).

Link originale dell’articolo

http://www.zocalopublicsquare.org/2011/ ... eas/nexus/
 


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